sabato 20 novembre 2010

"Investire sul SAPERE per investire sul futuro”

"Università, Ricerca e Innovazione"

L’investimento nel sapere è strategico: su scuola, università e ricerca si costruisce il futuro
La forte relazione tra "SCUOLA/UNIVERSITA'/RICERCA/INNOVAZIONE e TERRITORIO” è elemento chiave di uno sviluppo economico ed umano che abbia come orizzonte strategico e come fondamento dell'azione politica l'equità distributiva e la coesione sociale.
La crisi sta mettendo a dura prova anche il modello di sviluppo emiliano romagnolo, che ha garantito un lungo periodo di crescita economica e benessere diffuso. Per rimanere competitivi e continuare a produrre ricchezza in misura adeguata a consentire un’equa redistribuzione è necessario, ad ogni livello territoriale, investire in
ricerca, trasferimento tecnologico nella produzione, sviluppo del capitale umano.
Le politiche del Governo vanno in tutt’altra direzione; i tagli generalizzati producono un effetto depressivo su ogni settore dell’economia e non indicano alcun percorso per l’uscita dalla crisi. Contrariamente ad altri Paesi che, nel quadro di manovre severe, hanno comunque continuato ad investire nel sistema dell’istruzione e della
ricerca, in Italia si è disinvestito massicciamente proprio su scuola, università e ricerca. Si tratta di una scelta grave ed iniqua perché blocca la mobilità sociale, produce ulteriori diseguaglianze aggravando la condizione economica e sociale del Paese, la cui competitività viene pericolosamente compromessa.
Per il Partito Democratico l’investimento nel Sapere è irrinunciabile in quando base fondamentale della crescita umana e sociale degli individui e delle comunità in cui operano.
Senza Conoscenza non c’è Libertà e senza Libertà non c’è Democrazia.
Nell’economia globalizzata se non si investe sui Saperi si finisce per trovarsi a competere nella fascia bassa
del mercato, con paesi che hanno mercati del lavoro meno garantiti e su produzioni mature ed a minore valore
aggiunto. La sfida potrà essere vinta se si sapranno tenere insieme sapere, conoscenza, innovazione sociale e tecnologica e ricerca.

L’impatto dei tagli

L’impatto devastante dei tagli non è noto a gran parte dell’elettorato ed è bene ricordare come una politica massimamente centralista del Governo, in barba ai proclami federalisti e con l’appoggio della Lega, ha colpito il sistema pubblico d’istruzione e la ricerca scientifica e tecnologica, e con essi il nostro futuro.
1. Taglio di 8 miliardi di risorse in tre anni alla scuola, corrispondenti a meno ore, meno offerta formativa, meno discipline, meno attività di laboratorio, zero euro per l’innovazione didattica e la formazione dei docenti. Si sono separati i percorsi di istruzione, senza garantire a tutti i ragazzi, entro l’età dell’obbligo, saperi e competenze necessari per affrontare con strumenti adeguati l’età adulta. E’ stato calcolato che per effetto dei tagli appena introdotti, ad ogni bambina o bambino che entra oggi nella scuola primaria, al termine dell’obbligo scolastico saranno sottratte 63 settimane di istruzione, quasi due anni in meno di scuola.
2. L'Italia impegna solo lo 0,8 del PIL nella formazione e nella ricerca, contro il 2,2 della Francia, il 3,5
del Giappone e il 3,7% della Finlandia; con i tagli previsti nella legge di stabilità in corso di
approvazione il nostro paese scende ad un tendenziale 0,65% del PIL.
3. I tagli della legge finanziaria 244/2008 hanno operato una drastica riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che è la principale fonte di sostentamento dell'università pubblica1:
2009 7485 milioni di Euro
2010 7206 milioni di Euro (-3.73%)
2011 6130 milioni di Euro (-18.10%)
2012 6052 milioni di Euro (-19.14%)
Inoltre il Ministero non ha ancora versato agli atenei il FFO del 2010, impedendo di fatto la chiusura del bilancio per quest’anno e la previsione di spesa per il
2011. Un gesto gravissimo che rende ingovernabili le Università.
Lo stanziamento 2011 é addirittura insufficiente a coprire le sole spese di personale in gran parte degli atenei, compresi quelli “virtuosi”, e mancano quindi completamente le risorse per la didattica ed i laboratori.
Con il maxiemendamento alla legge di stabilità presentato nei giorni scorsi si reintegra di 800 milioni di euro il FFO del 2011, ma dato che il taglio originario era di 1076 milioni rimane un saldo negativo di 276 milioni e resta la previsione di un tracollo negli stanziamenti 2012.

Per i prossimi anni sono inoltre previsti:
Personale accademico di ruolo in forte flessione
Blocco del turnover
Diminuzione delle borse di dottorato

Nel 2009 la Francia ha invece destinato al sistema educativo risorse aggiuntive pari ad un 1% di PIL e la Germania ha accresciuto i fondi a sostegno della ricerca dell’8%.
Il PD ha proposto invece il pieno reintegro del FFO da finanziarsi con la tassazione delle rendite
finanziarie e di utilizzare le risorse derivanti dalla vendita delle frequenze del digitale per un piano investimenti finalizzato a potenziare la ricerca scientifica, a migliorare le sedi e le strutture didattiche e a sostenere la proiezione internazionale dei nostri atenei.
4. I fondi PRIN che finanziano progetti di ricerca sono diminuiti costantemente e nel decennio si sono più che dimezzati in valore reale. Si spendono complessivamente per la ricerca delle università italiane circa 80 milioni di euro, meno di quanto si è speso per incentivare i decoder della televisione.
5. Il Ministero ha ridotto in modo sostanziale anche il fondo ordinario per il 2011 degli Enti di Ricerca (CNR, INAF, INFN, ASI ecc.). Il taglio ulteriore rispetto al 2010 è di 95 milioni, confermato anche dopo il maxiemendamento, è insostenibile per la maggior parte degli enti di ricerca che non hanno un margine di investimento oltre ai costi fissi del personale e del funzionamento e fortemente penalizzante per gli enti che hanno una frazione significativa del bilancio destinata all' investimento in esperimenti ed infrastrutture di ricerca.
6. La legge di stabilità per il 2011 ha previsto un taglio dell’85% (!!!) le borse di studio per gli studenti universitari. Con il maxiemendamento si ripristinano 100 milioni lasciando in sostanza invariata l’attuale situazione, che comunque lascia privi di borsa di studio per mancanza di fondi decine di migliaia di studenti. Il solo fatto che si sia potuto pensare ad un taglio di questa dimensione testimonia una volontà ferocemente punitiva e classista, che, violando il dettato costituzionale, è disponibile a tagliare il futuro a migliaia di giovani capaci e meritevoli ma privi di mezzi, ostacolando ulteriormente la mobilità sociale. La Regione Emilia Romagna che, integrando con proprie risorse le assegnazioni ministeriali, ha finora garantito la borsa di studio al 100% degli aventi diritto, è dal canto suo alle prese
con l’entità drammatica del taglio operato dal Governo nei trasferimenti agli enti locali.
Questo elenco, peraltro non esaustivo, illustra un accanimento punitivo nei confronti del Sapere e della Ricerca, fattori strategici per lo sviluppo economico e sociale del Paese, che deve essere denunciato e contrastato con la massima forza.

Politiche per lo sviluppo delle comunità e dei territori.

La presenza di una rete territoriale di Istituti superiori, di Università ed Enti di Ricerca è di importanza strategica per ogni comunità locale delle nostra Regione.
E’ necessario che gli amministratori locali ne siano consapevoli così come è importante che la rete sia fruibile, raggiungibile ed attenta alle istanze ed alle sollecitazioni provenienti dai vari ambiti territoriali.
L’uscita dalla crisi non potrà avvenire applicando ricette tradizionali; il sistema produttivo dovrà trasformarsi significativamente se vuole mantenersi competitivo e le comunità potranno crescere se sapranno guardare al mondo con sguardo strategico, senza chiudersi in illusorie autosufficienze localistiche, e se sapranno utilizzare al meglio le opportunità offerte dalla rete regionale delle strutture di istruzione e di ricerca, le quali,
considerata la scarsità di risorse disponibili, dovranno lavorare sempre più in modo integrato, mediante accordi e livelli territoriali di programmazione, per evitare sprechi di risorse ed accrescere la specializzazione.

1. Investire sul capitale umano

Si costruisce futuro se si prepara una classe dirigente, capace di pensiero strategico e di buona amministrazione. Occorre quindi investire sul capitale umano, favorire l’accesso all’istruzione, promuovere i talenti valorizzando il merito. In quest’ambito le competenze femminili e i giovani talenti possono rappresentare risorse di fondamentale importanza su cui investire con politiche attive, per superare ritardi ormai anacronistici e palesemente dannosi per la crescita economica e l’avanzamento sociale.

Azioni:
Potenziare i Poli Tecnici e la Formazione Tecnica Tecnologica e Scientifica promuovendo nei singoli ambiti territoriali (comunali, provinciali, ma anche intercomunali ed interprovinciali) accordi che coinvolgano gli istituti tecnici gli enti locali, Università ed enti di ricerca, le imprese del territorio ed altre istituzioni di rilievo delle comunità. Solo mettendo in rete tutti questi attori si potranno condividere le priorità e far convergere le risorse su progetti mirati di specifica utilità per il territorio di riferimento. I tempi che viviamo impongono questa collaborazione ed il recupero di una logica mutualistica di comunità.
Un simile approccio deve essere orientato a sfruttare il potenziale esistente ed a favorire l’emersione di progetti, anche sovra territoriali, senza preordinare temi specifici e valorizzando anche il potenziale dei progetti di tipo umanistico in campo artistico, culturale e turistico.
Potenziare il lavoro ad alta qualificazione tecnico scientifica in un’alleanza strategica con il sistema dell’Università e della ricerca.
Le comunità locali devono assumere iniziative volte ad utilizzare al meglio le opportunità offerte dalle Rete Regionale di alta formazione per promuovere la crescita dei propri cittadini.
La Rete Regionale è impegnata a sviluppare e attrarre i talenti mediante:
• un programma diffuso per dottorati in impresa (a livello internazionale);
• un programma di contratti di avviamento per contatti di ricerca collaborativa;
• un programma di alternanza Università-impresa (accorciando il periodo di permanenza nel percorso di solo studio);
• un sistema di alternanza integrazione-studio-lavoro durante tutto l'arco della vita;
• uno sviluppo di modelli qualificati di impresa come luogo qualificato di produzione di conoscenza e di alta formazione legata a programmi di R&D;
• modelli qualificati di orientamento industriale verso la formazione tecnica su standard internazionali;
• potenziamento del Programma SPINNER in partnership con imprese e fondazioni

2. Lavorare per progetti: innovazione e trasferimento tecnologico

La velocità del cambiamento deve essere affrontata con una forte capacità “attrattiva” di capitali, conoscenze, talenti e politiche: un’attrazione gravitazionale, forte, che si deve fondare su qualità, identità, massa critica, e grande capacità di innovazione nella conoscenza, nella tecnologia, nell’organizzazione.
Sarà decisiva la capacità di accedere ai grandi serbatoi di spesa globali, quali i grants del VII programma quadro europeo; la concorrenza sarà forte per cui si rende indispensabile un’azione coordinata del nostro sistema universitario regionale e degli Enti Per la Ricerca (EPR), per raggiungere il livello di massa critica essenziale per accedere ai grandi bandi internazionali e per competere sui progetti e sull’attrattività.
In tale contesto le Università e gli EPR della nostra regione dovranno lavorare insieme, prevedendo una mobilità interuniversitaria di docenti e studenti, per poter internazionalizzare i dipartimenti ed adeguare la dimensione delle unità di ricerca: i tagli apportati dal Governo rischiano di compromettere questo necessario e strategico processo.
Potenziare l'economia artistica e della creatività.
L'innovazione di un tessuto produttivo messo in ginocchio dalla crisi non si attua solamente con freddi strumenti tecnologici o economici.
La creatività è elemento fondante anche dei processi di produzione industriale. Prima della produzione viene la creatività. Prima delle imprese vengono le persone. Prima dei parchi tecnologici vengono i luoghi dell'invenzione giovanile. Vogliamo che l'innovazione sia parte di un percorso sociale condiviso.
Per rilanciare il nostro tessuto produttivo dobbiamo anzitutto rilanciare la creatività dei giovani delle nostre città. Il nostro territorio vanta una secolare vocazione artistica e letteraria ed ha un patrimonio storico ed artistico che non ha uguali nel mondo. Le comunità locali devono essere consapevoli dell'enorme potenziale culturale ed umano che posseggono. Vogliamo uscire da questa crisi con una nuova generazione creativa che guardi al futuro con fiducia.
Sfruttando la rete di Università, Conservatori, Accademie di Belle Arti, Musei e Scuole comunali artistiche e musicali le amministrazioni locali possono mettere in opera interventi mirati che stimolino approcci innovativi alla valorizzazione, alla conservazione e alla fruibilità del nostro diffuso patrimonio storico e artistico,
diventando protagoniste di una nuova domanda di innovazione che possa stimolare nuove forme di turismo.
Si dovrà agganciare e stimolare il tessuto di industrie artistiche e creative già diffuse ed operanti nel nostro territorio, favorendo lo sviluppo di reti come il Romagna Creative District e guidando la realizzazione di parchi artistici ed incubatori creativi, a completamento di quelli scientifici e tecnologici, che possano innovare nei servizi di comunicazione per le imprese pubbliche e private e sviluppare una nuova economia artistica e della creatività.

Per un sistema produttivo locale più competitivo diffondere il trasferimento tecnologico

Sui Tecnopoli si gioca molta parte della futura competitività del nostro sistema territoriale e quindi occorre lo sforzo massimo di tutte le Università, IPR e dei gruppi di ricerca coinvolti ed una accelerazione, poiché la congiuntura che viviamo impone di fare subito il massimo sforzo di supporto all’innovazione ed alla produttività delle nostre imprese. In tal senso si può valutare anche un’eventuale una riduzione dei fondi destinati agli investimenti in strutture immobiliari (che potrebbero essere comunque effettuati utilizzando forme di
partenariato pubblico privato) per liberare risorse da destinare ad un maggiore investimento in relazioni, ricerca di base ed applicazioni.
Bisogna promuovere in un vero a proprio piano di marketing della ricerca emiliano romagnola prodotta dai Tecnopoli e dalla Rete dell’Alta Tecnologia e rendere fruibile il trasferimento tecnologico su tutto il territorio regionale, anche tramite l figura dei broker dell’innovazione.
Parimenti importante per lo sviluppo delle nostre comunità sarà la capacità di sfruttare al massimo in tutti i comuni, compresi quelli più decentrati, le opportunità offerte dalla rete Regionale Lepida e dotarsi di servizi comuni ad una rete di incubatori di impresa che possano insediarsi su tali territori e sostenere anche spin off e progetti di innovazione legati all’economia del territorio.
L’innovazione è diventata un fattore assolutamente strategico anche in agricoltura. Il settore agro-alimentare emiliano-romagnolo è sempre più orientato alla differenziazione dei propri prodotti, ottenuta puntando sulla qualità e sulla tipicità delle produzioni.
Per conservare la sua competitività, occorrono interventi mirati alla promozione dell’innovazione, in grado di superare le carenze strutturali che la contraddistinguono (aziende piccole, imprenditori anziani, difficoltà di collegamento con la ricerca). Il rapporto con le Università è quindi fondamentale per un’agricoltura competitiva, attenta alla sostenibilità ambientale, capace di attrarre i giovani e di innovare nelle fasi di
produzione, distribuzione e promozione dei propri prodotti.
In questo caso, il ruolo della Regione e del collegamento fornito dagli enti territoriali è decisivo, in quanto l’intervento nazionale è poco incisivo e in costante diminuzione. In particolare, è necessario aggregare la domanda d’innovazione delle diverse filiere agroalimentari presenti in regione organizzando moderni servizi di consulenza e formazione professionale, in grado di cogliere con professionalità e dinamismo le esigenze
effettive del mondo produttivo.

3. Difendere il diritto allo studio

Il PD ritiene strategico l’investimento nell’Istruzione e nei Saperi e coerentemente è impegnato a favorire l’accesso a scuola ed Università degli individui, nell’interesse della loro crescita umana e culturale e dello sviluppo economico e civile della Comunità.
Le politiche di diritto allo studio sono quindi di grande importanza. I tagli del Governo avranno ripercussioni sulle borse di studio, sui trasporti e la mobilità studentesca e su tutti gli altri elementi di welfare studentesco che costituiscono negli altri paesi uno degli elementi chiave dell’attrattività e della competitività di un sistema universitario.
Ogni comunità locale deve sforzarsi di considerare strategico l’investimento sui propri giovani ed adoperarsi, pur nella scarsità di risorse date, a far sì che nessun talento venga sprecato, che nessun ragazzo o ragazza rinunci a studiare per mancanza di mezzi.
Il Partito Democratico intende difendere i principi costituzionali in materia di Diritto allo Studio, cercando alleanze con enti ed istituzioni del territorio per mobilitare fondi e servizi integrati ed innovativi (housing sociale, mobilità studentesca, fondo di garanzia per i giovani ecc.) e rivendicando la piena applicazione del Titolo V, respingendo ogni incursione centralista sulla materia (a partire da quanto previsto nel DDL Gelmini).


SCHEDA INFORMATIVA
I dieci Tecnopoli, sono infrastrutture fisiche dove i laboratori di ricerca potranno insediarsi e organizzarsi per lavorare con le imprese, mette in campo 234 milioni di investimenti di cui 130 arrivano dai contributi regionali, 90 dalle Università e dai centri di ricerca, 14 dagli enti locali che contribuiscono a mettere a disposizione aree e infrastrutture.
L’investimento in infrastrutture é di 68 milioni di euro; 54 milioni andranno invece per le attrezzature scientifiche e 112 milioni di euro per i contratti dei nuovi ricercatori.
In tutto 160 mila i metri quadrati di aree dedicate alla ricerca industriale, campus universitari scientifici come quelli di Parma e Modena o aree e siti industriali riqualificati come a Bologna, Ravenna, Faenza, Forlì e Cesena, Rimini, Spilamberto, Vignola, Reggio Emilia, Piacenza. 46 laboratori di ricerca al lavoro e 7 centri per l’innovazione.
I ricercatori coinvolti nel programma in modo permanente sono circa 2000, di cui circa 520 con nuovi contratti o assegni di ricerca. Il resto è rappresentato dai ricercatori e professori già presenti nelle Università o negli enti di ricerca.
Sono coinvolti in questo programma le Università di Bologna, con i poli romagnoli di Cesena, Rimini, Ravenna e Forlì, di Modena e Reggio Emilia, di Ferrara e di Parma, il Politecnico e la Cattolica di Milano con sede a Piacenza, il CNR, l’ENEA, l’Istituto Ortopedico Rizzoli e altri organismi di ricerca. Sono inoltre coinvolti gli enti locali, in particolare le province, i comuni capoluogo e i principali comuni, con interventi spesso molto significativi anche in termini di riqualificazione urbana.
La Rete Regionale dell’Alta Tecnologia, è organizzata su 46 strutture di laboratorio di ricerca, tutte con configurazione autonoma dal punto di vista giuridico e/o organizzativo e scientifico, e collegate tra loro in rete attraverso il lavoro di coordinamento svolto dall’ASTER nell’ambito delle piattaforme tematiche in cui vengono aggregati: l’alta tecnologia meccanica e i nuovi materiali avanzati, l’agroalimentare, le costruzioni, le scienze della vita, l’energia e l’ambiente, l’ICT design e il multimediale.
A questi si aggiungono 7 centri per l’innovazione già appartenenti alla Rete, per un totale di 53 strutture complessive.
Disponiamo quindi di una grande massa di competenze tecnico-scientifiche, di strutture e facilities a favore del sistema produttivo regionale, soprattutto nei confronti delle principali specializzazioni produttive che lo caratterizzano, per favorire il passaggio “dai distretti produttivi ai distretti tecnologici”.

A cura del PD dell'Emilia-Romagna (Novembre 2010)

venerdì 8 ottobre 2010

Gelmini e la riforma dell'Università.

Intervista ad Antonio Genovese
A cura di Bijoy M. Trentin e Emanuela De Luca


Il percorso di elaborazione della Legge relativa alla riforma dell’Università è incerto, per le vicende finanaziarie, ma anche per le proteste, vaste ed articolate che ne hanno accompagnato l'iter parlamentare.
La legge prevede mutamenti a tutti i livelli, dalle questioni didattiche alla governance.
Ora, molti ricercatori sono favorevoli a non dare la disponibilità a assumere la responsabilità didattica dei corsi per affidamento/supplenza nell’a.a. 2010/2011, non essendo formalmente tenuti a svolgere questo specifico tipo di attività didattica: ciò non sarà irrilevante, poiché moltissimi corsi sono ‘tenuti’ proprio dai ricercatori a tempo (in)determinato. Se le misure previste per le possibilità di carriera di questi sono ritenute insufficienti, quelle per i cosiddetti ‘ricercatori precari’ sono considerate ancora piú inadeguate. Il problema principale, tuttavia, è – si sa – economico: i finanziamenti sono carenti, anche in fase di riforma. La strettoia riduce considerevolmente le possibilità di reclutamento di personale ricercatore-docente, conducendo l’università all’impoverimento delle specializzazioni (di certo di quelle non facilmente mercificabili), in un magma generalista, tutto appiattito sui criteri economici, che non considera le potenzialità delle specificità, preziose a fronte anche di dati quantitativi minimi, che non dovrebbero condurre alla creazione di lugubri riserve o persino a nefaste soppressioni: il rapporto che si sta delineando tra centralismo e autonomia garantirà ancora il rispetto di standard condivisi e l’effettiva valorizzazione delle capacità?
Su questi e altri temi di riforma dell’università abbiamo intervistato Antonio Genovese, professore ordinario di Pedagogia generale e sociale (http://www.unibo.it/docenti/antonio.genovese). [B.M.T.]


Rispetto al “decreto Gelmini” ci sono state posizioni particolari nella Facoltà in cui lavora?

Sì. Intanto c’è stata l’iniziativa, anche molto ben organizzata, dei ricercatori strutturati. Perché queste proposte legislative sembrano, per quello che se ne conosce oggi, costruire un buco nero per gli attuali ricercatori: non si capisce bene quali prospettive di carriera potranno avere, quale sarà la loro collocazione futura. E questa, credo davvero, sia una situazione molto pericolosa perché gli attuali ricercatori non fanno solo ricerca all’università, ma anche didattica. C’è un carico consistente della didattica universitaria che corre il rischio di essere bloccato. Inoltre in queste iniziative governative c’è, secondo me, anche un tentativo di mascherare le situazioni.

Cosa intende dire?


Provo a spiegarmi perché credo che su questo tema occorra fare un passo indietro. All’interno della riforma universitaria, che è necessaria, si pone anche il problema dello stato giuridico dei docenti. L’attuale modello, anche se criticabile, è un modello che prevede in teoria due fasce di docenza, ma di fatto ve ne sono tre: i ricercatori, i professori associati, i professori ordinari, con poca distinzione di ruolo tra l’associato e l’ordinario, ma con una forte differenziazione tra ordinario/associato e la fascia dei ricercatori. Modello, come dicevo, criticabile, ma che aveva una sua logica: nacque come tentativo di razionalizzare la presenza dei ricercatori e dei docenti all’interno dell’università: prevedeva, alla fine della laurea, un momento di formazione, retribuito attraverso borse di studio, il dottorato di ricerca. Fra i dottori di ricerca, o meglio in maniera privilegiata fra i dottori di ricerca, doveva aprirsi la gara sulla base del merito per un posto di ricercatore. E il modello prevedeva che il ricercatore, che inizialmente doveva formarsi sia nella ricerca sia nella didattica, potesse poi avere davanti a sé aspirazioni di carriera col passaggio – attraverso concorso - a professore associato. Poi, come professore associato, poteva migliorare la condizione economica ma anche (diciamo così) la condizione professionale e di ricerca, con il passaggio a professore ordinario. Ovviamente non tutti i ricercatori sarebbero diventati associati e non tutti gli associati, ordinari: i concorsi avrebbero selezionato i migliori! Si tratta di un modello che prevedeva intanto un’università di massa e qualificata, un’università di massa all’interno della quale potessero convivere ricerca e didattica, in cui la didattica doveva essere vivificata attraverso l’attività di ricerca. Un modello che prevedeva diversi stadi, che andavano dalla formazione fino alla maturità professionale attraverso meccanismi di selezione rigorosi come i concorsi. Sarebbe da scrivere una lunga storia su questi temi, si dovrebbe andare a vedere cosa è successo negli anni passati con i blocchi successivi che ci sono stati nei concorsi che hanno creato via via degli “imbuti” che hanno impedito a lungo le carriere. Per cui molti ricercatori che oggi sono “anziani” nel ruolo non hanno nemmeno avuto la possibilità di avere un concorso o l’hanno avuto solo negli ultimi anni, come pure molti associati, molto spesso, non hanno avuto nemmeno la possibilità di partecipare a un concorso da ordinario, se non negli ultimi anni.

Dunque questo modello sarebbe da cambiare totalmente?

Questo è un modello che, a mio parere, aveva una sua logica, e seppure criticabile, a mio parere aveva molti aspetti positivi, in particolare il fatto che la carriera prevedesse momenti di formazione accanto a momenti in cui uno, come dire, esplicita, manifesta le proprie competenze professionali. Anche a monte si è verificato un blocco: il dottore di ricerca ha avuto una piccola borsa di studio al momento dell’ingresso nel dottorato di ricerca, ma, appena finito quel periodo, non essendoci mai stati o essendoci stati pochi (e molto diluiti nel tempo) concorsi per ricercatori, si è formata anche lì una enorme sacca di precariato - con forme molto diversificate, che andavano dall’assegno annuale all’assegno semestrale al co.co.co; insomma, una sacca di forte precarizzazione. Allora, proprio perché c’era questa sacca di forte precarizzazione, si era chiesto da più parti e da diversi anni di razionalizzare questa situazione e di creare una sorta di “ricercatori junior”, a tempo determinato (che poteva durare tre anni, quattro anni) una figura cioè che doveva sostituire questa selva di precariato. Invece, proprio su questo hanno fatto una specie di “gioco delle tre carte”: è sparito il ricercatore strutturato, di ruolo, ed è stata gonfiata quest’ipotesi del ricercatore a tempo determinato con contratto di 3+3 anni alla fine del quale, se supera il concorso, entra all’università oppure non entrerà mai più. Ma se entra, in quale fascia? Ecco allora che qui ritorna fuori il problema del modello che oggi viene proposto in relazione allo stato giuridico del personale. A mio parere, il modello implicito è da università privata di tipo americano, in cui c’è il docente ordinario che ha una coorte, a volte anche molto numerosa, di collaboratori non strutturati e al di sotto di questo gruppo continuerà ad esistere, a mio parere, una fascia di precarizzazione.
Quindi è un modello che risponde ad una logica economica: la riforma non la sta facendo il ministro Gelmini, quello che davvero sta facendo le riforme è Tremonti. La finanziaria è l’ennesima espressione di questo tema: si deve ridurre il personale, si deve ridurre la spesa pubblica. L’università viene pensata in altro modo, l’università pubblica sarà con pochi docenti e molti precari a svolgere le mansioni e le funzioni sia della ricerca sia della didattica e accanto all’università pubblica cominceranno a nascere le università private (e soprattutto quelle telematiche, vedi per esempio l’università di Mediaset, E-campus). Presto ci troveremo in un panorama diversificato: ci saranno molti diplomifici e poche università in grado di dare competenze elevate ma per le élite. Il modello americano è così. In America, vi sono alcune università di grande qualità, private e anche pubbliche, poi molte università di di media qualità private e pubbliche e poi c’è un livello bassissimo, dove i titoli di studio si possono anche prendere col solo riconoscimento delle attività professionali svolte. Laddove c’è l’assenza del valore legale del titolo di studio è evidente che il titolo non ha più significato in sé, ma lo ha in relazione alla qualità di chi lo attribuisce. A me questa sembra una strada davvero pericolosa, perché noi dobbiamo garantire che il medico laureato in Italia possa andare a fare il medico anche in Inghilterra o in Olanda, cioè occorre un titolo di studio riconosciuto a livello europeo. Insomma, è da anni che si sta lavorando sia sugli standard comuni, sia sulla necessità di arrivare a valutazioni che permettano di capire, diciamo così, anche gli standard differenziati e differenti. A me sembra che ci sia davvero una inversione di marcia notevolissima che ci porta verso i meccanismi della privatizzazione.

Ci sono anche altri stati che vanno in questa direzione o siamo solo noi in Italia?

Per quello che ho seguito e capito negli anni passati, mi sembrava che il percorso puntava a una sorta di avvicinamento dei sistemi universitari europei, tant’è che la nostra laurea triennale è stata fatta proprio per accorciare il percorso formativo italiano in maniera da renderlo simile a quanto succede in Francia, in Germania e soprattutto in Inghilterra. Quindi fin qui sembrava che con gli accordi europei (in particolare quello di Lisbona) ci fosse una sorta di orientamento generale anche in Europa per avere dei sistemi, spesso, misti, pubblico/privato - che però avevano nel controllo statale la garanzia di alcuni standard di qualità, il che avrebbe permesso la circolazione del titolo in Europa. Mi sembra che con questi passaggi della Gelmini stiamo andando completamente da un’altra parte!

Sì, ma molto spesso viene attaccato questo modello nuovo del 3+2…

È vero, ma succede forse perché siamo giunti a derive che non erano comunque previste e prevedibili. Penso che la riforma del 3 più 2 sia stata un’occasione mancata per l’università! L’università con la sua autonomia poteva gestire questo cambiamento in maniera molto diversa, ha perso davvero una chance importante. Invece, ha prevalso una logica corporativa per cui c’è stato un proliferare di sedi universitarie e di corsi universitari e spesso, nelle situazioni accademicamente più forti, c’è stato anche un proliferare di cattedre. Non sempre ha prevalso la logica del bisogno della didattica o della ricerca, ma la logica del potere universitario per garantire dei posti.

Ma forse il problema, per quanto riguarda il 3+2, non sta anche nella valutazione dei corsi? Perché finchè i corsi di laurea vengono valutati in base al numero degli studenti laureati ogni anno, se è la quantità che guida il mantenimento dei corsi stessi, ci si appiattisce per forza verso il basso.

C’è un problema vero anche lì, ma è non solo lì. Per esempio, per me sarebbe molto più semplice fare una didattica che seleziona il 50% degli studenti, per cui invece che averne 300, ho solo 150 studenti di cui frequentanti 75; io sono sicuro di lavorare molto, ma molto meglio e quei 75 li porto a livelli alti. Ma questo è il modello di università che vogliamo? Allora il punto decisivo è che bisogna lavorare sulle capacità che l’università ha di tenere gli studenti (cioè di contenere la dispersione universitaria!) e di promuovere le loro competenze…

Facevamo riferimento a quei corsi in cui ci sono veramente pochi studenti ma in cui vengono trasmesse delle conoscenze specifiche in determinati ambiti (per esempio l’astronomia, o certi corsi dell’area umanistica, come quelli di filologia classica); in questo caso la scomparsa di un corso e di certe cattedre poi porta a un impoverimento della stessa facoltà e dell’università.

È un discorso diverso, infatti anch’io son d’accordo su questo punto. Perché il tema della cultura nell’università e nella scuola non può avere sempre e soltanto il parametro economico esattamente per i motivi che dicevi tu. Il latino non va più di moda, non piace più a nessuno: chiudiamo? Una tradizione culturale italiana come quella classica la facciamo sparire perché i costi sono eccessivi, perché ci sono pochi studenti? Se arriviamo a questo, stiamo passando alla barbarie culturale. Perché un’università seria prende i soldi dove può prenderli e poi li distribuisce aiutando le situazioni deboli, perché quelle situazioni deboli sono patrimonio importante della nostra cultura, della nostra comunità. Certo, se io fossi un latinista non posso aver la pretesa di aver cattedre, ricercatori, ecc.; dovrò contenere le mie aspirazioni. Ma da questo, ad usare semplicemente la scure economica ce ne passa. Nell’università, come in tutte le situazioni di cultura, non si può utilizzare soltanto il parametro economico. Vi sono tanti settori che sono minoritari, piccoli ma importanti. Anche le ricerche di avanguardia: è chiaro che, in certe situazioni, quelle non sono ricerche immediatamente produttive, però può darsi che domani si rivelino un campo di ricerca importantissimo e fondamentale. Il punto decisivo è che il modello universitario italiano, che è anche un modello molto consistente in Europa, vede insieme due aspetti: la ricerca e la didattica, e questi due momenti, secondo me, bisogna tentare di tenerli insieme per davvero: dunque, bisogna trovare anche dei parametri economici per permettere un equilibrio all’interno. Per questo – tornando alla domanda di prima – è vero che non bisogna valutare in base alla quantità di studenti che si laureano, però è anche vero che è importante capire come l’istituzione funziona dal punto di vista della didattica, è un parametro importante. Certo che anche quello, preso in maniera rigida e astratta, porta al formalismo, alla scappatoia del “io promuovo tutti e buonanotte”. È questo il punto fondamentale: siamo in una società complessa, fatta di istituzioni complesse: la cultura di chi governa analizza i sistemi con la semplificazione. Allora, se questo insieme complesso io lo analizzo solo con l’elemento “quanti studenti bocci”, è chiaro che c’è sempre la possibilità di far saltar fuori il risultato che voglio, quello più favorevole al mantenimento dello status quo. Questo succede se si lavora su un solo parametro; se i parametri sono allargati, se c’è una valutazione longitudinale degli studenti, della qualità della didattica, dei supporti offerti agli studenti, se vado a vedere quanti di questi studenti trovano lavoro dopo la laurea nel loro settore di competenza, ecc., allora la cosa è diversa. Tu non hai promosso perché in questo modo il ministero ti valuta positivamente perché hai pochi fuori corso e ti dà i soldi, ma perché hai davvero favorite le conoscenze e le competenze degli studenti. Questo è il punto decisivo: siamo in una società complessa, ma ci si muovere sempre con la logica della semplificazione. La semplificazione non paga; paga momentaneamente, quando devi far quadrare i conti, ma il giorno dopo le cose non funzionano più.

domenica 8 agosto 2010

Ancora sul DDL Gelmini. Un’ altra voce dal mondo della ricerca

Mentre il disegno di legge Gelmini di riforma dell’università attende che si sfoltisca la coda legislativa creata da questioni di vitale importanza e di estrema urgenza per il nostro paese (quali la legge sulle intercettazioni…), cerchiamo di conoscere meglio, dall’interno, il mondo dell’università e della ricerca. Abbiamo, perciò, ascoltato il parere del dr. Paolo Tieri, ricercatore presso il laboratorio di Immunologia del Centro Interdipartimentale “L. Galvani” dell’Università di Bologna. Una testimonianza, accorata e appassionata, che disegna un quadro attuale estremamente negativo e capace di subire ulteriori danni nel prossimo futuro.

Che tipo di ricerche svolge il Suo gruppo di ricerca? E lei in particolare? Quali applicazioni pratiche trovano le Vostre ricerche?
Il laboratorio di Immunologia diretto dal Prof. Claudio Franceschi si occupa di invecchiamento umano e longevità da un punto di vista principalmente immunologico e genetico. In particolare si studiano individui centenari e ultracentenari, che rappresentano appunto un modello di "buon invecchiamento". Il laboratorio è a capo e partecipa a diversi grandi progetti di ricerca europei, tra cui il progetto GEHA, acronimo che sta per 'genetica dell'invecchiamento in salute'. Io mi occupo di modellizzazione e analisi del sistema immunitario: in parole semplici, il funzionamento del sistema immunitario si basa sulla 'cooperazione' di organi e di miriadi di cellule e proteine, che lavorano in maniera coordinata e incredibilmente complessa per proteggere l'organismo da attacchi esterni e riparare i danni che esso subisce nel normale corso della vita. In pratica cerco di 'ricostruire', utilizzando anche metodi matematici e simulazioni al computer, la struttura e il funzionamento del sistema immunitario per avere predizioni del suo comportamento, da verificare poi sperimentalmente. Se la predizione è giusta, allora si è aggiunto un altro tassello alla comprensione del funzionamento del sistema nel suo complesso. Le applicazioni pratiche della conoscenza della biologia umana - e delle dinamiche dell'invecchiamento nel nostro particolare caso - sono, direi, lapalissiane: in ultima analisi, l'obiettivo è una medicina (e/o farmacologia) preventiva e personalizzata, molto più mirata, efficace e meno invadente di quella odierna. Per arrivare, però, dalle scoperte della ricerca di base all'applicazione clinica ci vuole molto tempo: gli investimenti nella ricerca fatti oggi si vedranno, forse, tra dieci, quindici anni... cosa che non deve spaventare: eravamo negli ani Sessanta quando nacque la prima rete di computer intercomunicanti, e nessuno immaginava Internet com'è attualmente...
Voi ricercatori, oltre a svolgere il lavoro di ricerca, avete incarichi didattici?
Sì. A parte i due ricercatori a tempo indeterminato (che sono solo due su venticinque...) che lo fanno 'istituzionalmente', qui da noi più o meno tutti tengono corsi, minicorsi, lezioni e seminari agli studenti di diversi corsi di laurea e di master. Attività non retribuita: nessuno riceve un euro in più rispetto al proprio assegno di ricerca, borsa di studio o normale stipendio da ricercatore.
Quali sono, allo stato attuale, i problemi e le criticità nel vostro settore di ricerca che andrebbero risolte in via prioritaria?
Io individuo principalmente tre temi, strettamente interconnessi e comuni alla ricerca scientifica italiana, non solo al nostro settore: la totale mancanza di prospettive per chi fa scienza, la cronica scarsezza di fondi e l'imbarazzante età media di chi insegna e fa ricerca all'università. Nessuno che voglia intraprendere questo mestiere in Italia può dire dove sarà e cosa starà facendo fra cinque-dieci anni. Diventare ricercatore a tempo indeterminato oggi è un'impresa titanica, un'assunzione che normalmente arriva molto raramente, dopo aver resistito per almeno una decina di anni con contratti precari. I contratti a termine (assegni di ricerca e ex co.co.co) a loro volta dipendono in toto dalla volontà e dalla disponibilità di fondi del professore che vuole assumerti. I fondi di ricerca provengono in maggioranza da progetti europei, sui quali il ricercatore precario non ha nessun controllo. Non c'è praticamente controllo sulla qualità della ricerca fatta, quindi chiunque detenga il potere di assumere personale di ricerca non deve rispondere a nessuno della sua produttività scientifica, con le ovvie storture che questo sistema porta. È una situazione disastrosa, che allontana i migliori dalla ricerca universitaria italiana, perché in questo modo non possono avere nessun controllo sulla propria carriera e sulla propria vita. Forse sono eccessivamente catastrofista, ma in questo desolante panorama, senza un drastico cambiamento, dettato da una volontà politica cosciente, sapiente e decisa, andiamo incontro a un vero e proprio termine della ricerca 'made in Italy'.
Come crede si possano risolvere le criticità da Lei evidenziate nel campo della ricerca scientifica?
Credo che la ricetta per tentare di salvare la scienza italiana sia tanto semplice nelle scelte da fare quanto difficile nel portarle realmente avanti, alle prese con potentati, baronati, gerontocrazie e burocrazie che gestiscono questo paese. Bisogna che chi 'comanda', chi gestisce un ministero, capisca cosa vuol dire fare ricerca, una grandiosa e difficile impresa a lungo, lunghissimo termine, gestita da menti appassionate, brillanti e capaci di immaginazione. Bisogna che i fondi e gli investimenti dedicati aumentino almeno ai livelli di Germania, Francia, Inghilterra, Scandinavia (per non nominare gli USA o il Giappone...). Bisogna, ancora, che questi fondi siano gestiti in modo trasparente su base esclusivamente meritocratica, senza la mediazione di niente altro che di una agenzia per la ricerca che sia rigorosa e totalmente indipendente dalla politica, troppo intrecciata agli interessi di pochi. Infine bisogna che i passi della carriera di un ricercatore siano precisi e scadenzati, e legati esclusivamente alla sua capacità di fare vera scienza, fuori dalle dinamiche malate che oggi stroncano anche le più ferree volontà.
Gli ultimi interventi legislativi, e, in particolare, la proposta di riforma del ministro Gelmini, vanno in questa direzione? Cercano di dare risposta a queste necessità?
Nessuna delle cosiddette riforme universitarie presentate fino a ora, compresa ovviamente quella della Gelmini, rispondono minimamente a queste necessità. Sono maquillage, aggiustamenti di facciata, sono sbagliati e inefficaci, fatti cadere dall'alto senza sapere bene cosa si sta facendo, senza ascoltare le parti in gioco, senza sentire il parere di chi la ricerca la fa, con fatica e passione. Ma c'è di più: tra Finanziaria e legge Gelmini c'è in atto un vero e proprio tentativo di destrutturare e distruggere l'università statale. Come leggere le riduzioni drammatiche del Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università? E la fortissima limitazione del turn-over delle assunzioni per (almeno) un quadriennio? E il prolungamento e l'istituzione di nuove figure di ricerca precarie? Mettiamoci dentro anche il disegno 'autoritario' di governo dell'università, e tutto ciò non può che apparire come una riforma 'contro', e non dell'università, un attacco all'istituzione università in quanto luogo di "libera azione di libere menti" (V. Bush). Nessuno può permettersi il lusso di rimanere inerte a guardare questa desolazione.

Emanuela De Luca

Ancora sul DDL Gelmini. A colloquio con gli studenti.

I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi,
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto
con borse di studio, assegni alle famiglie
ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Costituzione della Repubblica Italiana, art. 34

Del resto, mia cara, di che si stupisce,
anche l’operaio vuole il figlio dottore
e pensi che ambiente ne può venir fuori,
non c’è più morale, contessa…
P. Pietrangeli, Contessa


I provvedimenti più discussi contenuti nel DDL Gelmini riguardano, come abbiamo messo in luce nella scorsa intervista [http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/06/la-protesta-dei-ricercatori.html], principalmente i ricercatori. Ma la nostra attenzione è caduta su un’altra norma contenuta nella bozza del disegno di legge: l’art. 4 “Fondo per il merito” per mezzo del quale “è istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze un Fondo speciale per il merito finalizzato a promuovere l’eccellenza e il merito fra gli studenti mediante prove nazionali standard (comma 1)”. Si tratta di un intervento riguardante il diritto allo studio; difatti “il Fondo è destinato a: a) erogare borse di studio da utilizzare per il pagamento di tasse e contributi universitari, nonché per la copertura delle spese di mantenimento durante gli studi; b) fornire buoni studio […] che prevedano una quota da restituire al termine degli studi […]; c) garantire prestiti d’onore […]” (comma 1). “Il Ministro, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze […] con propri decreti disciplina i criteri e le modalità di attuazione del presente articolo ed in particolare a) i criteri d’accesso alle prove nazionali standard; b) i criteri e le modalità di attribuzione delle borse e dei buoni di accesso ai finanziamenti garantiti; […] e) i requisiti di merito che gli studenti devono rispettare nel corso degli studi per mantenere il diritto a borse, buoni e finanziamenti garantiti; f) le modalità di utilizzo di borse, buoni e finanziamenti garantiti; […] i) le modalità di svolgimento delle prove nazionali standard” (comma 2). Sebbene il Fondo venga istituito presso il Ministero dell’economia e i criteri di funzionamento vengano disciplinati dal MIUR, “la gestione del Fondo, dei rapporti amministrativi con università e studenti è affidata a Consap s.p.a.” (comma 3) e “gli oneri di gestione e le spese di funzionamento degli interventi relativi al Fondo sono a carico delle risorse finanziare del fondo stesso” (comma 4). Ma chi eroga i finanziamenti per questo fondo? La risposta (vaga) negli articoli successivi: “Il Ministero dell’economia e delle finanze, con propri decreti, determina, secondo criteri di mercato, il corrispettivo per la garanzia dello Stato, da imputare ai finanziamenti erogati” (comma 5); “il Fondo speciale è alimentato con versamenti effettuati a titolo spontaneo e solidale effettuato da privati, società, enti e fondazioni, anche vincolati, nel rispetto delle finalità del fondo, a specifici usi, nonché con eventuali trasferimenti pubblici previsti da specifiche disposizioni” (comma 6); “il Ministero, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, promuove anche con apposite convenzioni, il concorso dei privati e disciplina con proprio decreto le modalità cui i soggetti donatori possono partecipare allo sviluppo del Fondo, anche costituendo, senza oneri per la finanza pubblica, un comitato consultivo” (comma 7). Nella bozza di decreto restano vaghi e dubbi molti aspetti, ad esempio la tipologia dei test nazionali, i finanziamenti su cui contare e dunque la quantità delle borse erogate.
Abbiamo chiesto, pertanto, un parere in generale sul DDL e in particolare sull’art. 4 ad Angelo Rinaldi, studente di Filosofia presso l’Ateneo bolognese e rappresentante degli studenti facente parte del “Sindacato degli Universitari”.
Le proteste più rumorose contro il DDL Gelmini sono state, finora, quelle dei ricercatori e di alcuni rettori. Le rappresentanze studentesche nazionali, invece, hanno espresso un parere in merito? Come hanno accolto questa proposta di riforma?
A livello nazionale le rappresentanze studentesche hanno espresso il loro parere su questo DDL; l’UDU (Unione degli Universitari) sia attraverso i forum istituzionali del Ministero sia attraverso il CNSU (Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari) ha posto un veto, ha detto “si parli di riforma ma si parli con gli studenti e non si chieda loro semplicemente una ratifica di ciò che è stato già deciso, e soprattutto si mettano in discussione i tagli”. Su questo l’UDU è stata molto netta e rigida: bisogna sfatare il mito per cui si può riformare l’università a costo zero. Un comportamento diverso abbiamo avuto dal CLDS (Coordinamento Liste Diritto allo Studio), che ha fondamentalmente ratificato già la legge 133 e ha chiesto dei piccoli compensativi sul diritto allo studio – che tra l’altro la Gelmini ha dato subito dopo il periodo dell’Onda, quindi come contentino per mettere a tacere quell’enorme protesta, cioè sono state concessioni frutto di una contingenza e non contrattazioni dirette del CLDS.
Esaminiamo la norma che riguarda più da vicino gli studenti, cioè l’istituzione del Fondo per il merito. Prima, però, può illustrarci l’attuale organizzazione del sostegno al diritto allo studio, i suoi punti forti e le criticità.
Attualmente il sostegno al diritto allo studio è gestito principalmente dalle Aziende regionali per il diritto allo studio universitario, che con i fondi provenienti per lo più dalle Regioni, finanziano le borse di studio. L’erogazione delle borse si basa su questo principio: se il nucleo familiare di cui fa parte lo studente rientra in determinati parametri economici, può fare domanda di borsa di studio (o usufruire di fasce di contribuzione ridotta, a seconda sempre dei parametri economici) presso l’università a cui è iscritto e, rimanendo immutate tali condizioni, lo studente usufruisce della borsa a patto che, ovviamente, alla fine di ogni anno riesca ad acquisire un certo numero di crediti formativi. Inoltre è previsto, almeno in Emilia Romagna, un certo numero di borse di studio per solo merito, erogato indipendentemente dai requisiti economici dello studente. Il punto di forza di questo sistema è proprio il fatto di considerare prioritaria la condizione sociale di partenza dello studente e di basarsi su quella per sostenere il suo diritto a studiare. Un difetto, a parer mio, è che questo sistema non tiene conto dell’andamento complessivo, cioè tiene conto, sì, dei crediti formativi, ma questi possono essere di qualsiasi tipologia, possono essere conseguiti con qualsiasi voto, e sono concepiti talvolta con un sistema molto rigido, cioè sono gli stessi sia per lo studente che studia e basta, sia per chi fa l’Erasmus, sia per chi lavora, sia per chi fa un’esperienza di tirocinio. Non è una cosa drammatica, certo, però da questo punto di vista si potrebbero creare percorsi più flessibili, diversificati a seconda della tipologia dello studente. Altro difetto è che si eroga il contributo non allo studente per il proprio percorso formativo, ma al suo nucleo familiare perché lo studente possa avere un percorso formativo; in tal modo non si prevede che proprio quei nuclei più disagiati chiedono un contributo maggiore allo studente. Infine difficilmente tutti gli studenti idonei ad usufruire della borsa di studio riescono ad essere anche assegnatari, poiché i finanziamenti non riescono sempre a coprire tutto il numero delle borse.
L’istituzione del Fondo per il merito come si inserisce in questo quadro? Risolve i problemi e le carenze dell’attuale sistema di diritto allo studio?
Assolutamente no, anzi, costituisce un passo indietro rispetto al diritto allo studio. Innanzitutto perché è un provvedimento che fa parte di una riforma che dovrà esser fatta a costo zero; a ciò si aggiunge il fatto che la riforma è preceduta e accompagnata da tagli, prima quelli della legge 133/2008 e poi da ultimo la manovra finanziaria, che taglia indiscriminatamente anche i fondi alle Regioni. Inoltre noi, come Sindacato degli Universitari, riteniamo che proprio il principio che sta alla base del Fondo per il merito sia sbagliato. La logica è questa: il Ministero eroga la borsa allo studente a prescindere dalla sua provenienza regionale, dall’appartenenza a un sistema di diritto allo studio (in quanto il fondo per il merito è su base nazionale) perché ha dei requisiti considerati meritori. Una volta ottenuta la borsa, lo studente va a scegliersi l’università che ritiene migliore. In sostanza è un’idea abbastanza malata di libero mercato del sapere. Dov’è che non funziona poi questa logica? Nel momento in cui si va a fare il test nazionale delle borse di merito, con un quizzone a crocette, quasi fosse l’esame per la patente, non il diritto allo studio. Altro problema: siccome il prelievo fiscale avverrà sulle borse di studio, per più anni il Ministero attribuisce borse di merito e per più anni le conferma agli studenti che le hanno già prese, meno soldi passa alle Regioni per il diritto allo studio. E quindi meno soldi le Regioni sono vincolate a metterci perché c’è il vincolo che se, ad esempio, il Ministero eroga un euro, la Regione deve mettercene un altro. Quindi tagliando un euro se ne tagliano due. La nostra paura qual è? È che si vada a togliere il diritto allo studio come welfare, come diritto sancito costituzionalmente, e lo si vada a trasformare in un incentivo premiante basato su criteri di merito che sono tutt’altro che discutibili. La meritocrazia intesa in questo modo porta alla scelta di coloro che magari provengono da un tessuto sociale migliore ed hanno possibilità economiche maggiori, quindi si va a selezionare il più forte socialmente, si va a rimarcare una gerarchia economica. Tutt’altro che studio inteso come mezzo di progressione sociale. L’Università invece, essendo un’istituzione formativa, deve avere la serietà e il coraggio di dare i mezzi prioritariamente a chi non li possiede, a chi economicamente non ce la fa (a patto sempre che rispetti e rientri nei parametri economici e di crediti conseguiti), soprattutto in questo periodo. Invece si istituzionalizza un principio esattamente opposto.
In generale, al di là dell’art. 4, qual è il vostro parere sul DDL Gelmini?
Secondo noi, sulla governance contiene un principio condivisibile: il fatto che il CDA e il Senato accademico debbano avere competenze nette e diverse. Per il resto, questo è un testo non discutibile, ma proprio irricevibile perché intende riformare l’università senza investire neanche un soldo. Se davvero si vuole parlare di riforma dell’università, allora, secondo noi, bisogna prendere in considerazione questi punti: diritto allo studio, qualità della didattica (che non dovrebbe essere semplicemente riproduttiva, soprattutto nelle facoltà umanistiche, e non dovrebbe basarsi solo sulla quantità degli studenti laureati), governance migliore, responsabilità (non si possono aprire le sedi universitarie come i funghi). Se la riforma deve servire solo a fare cassa, allora no, non si discute neanche. Per questo le ultime normative sono irricevibili, perché noi vogliamo parlare di università come istituzione formativa, il governo, invece, di esigenze di bilancio spacciandole per riforma.

Emanuela De Luca

domenica 1 agosto 2010

La discussione pubblica del DdL Gelmini.

Emanuela De Luca

In queste settimane di fermento all’interno delle università italiane continuano a prodursi occasioni di dibattito e critica pubblica sul DDL Gelmini di riforma dell’università. Così a Bologna, dove lo scorso 28 giugno, si è svolta una assemblea pubblica su questo tema organizzata dalla Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL di Bologna presso l’Aula Magna di Scienze Statistiche.
Sono intervenuti Manuela Ghizzoni (capogruppo del Partito Democratico alla Commissione Istruzione e Cultura della Camera dei Deputati), il prof. Ivano Dionigi (Magnifico Rettore dell’Università di Bologna), Patrizio Bianchi (Assessore Regionale Scuola, Formazione, Università, Lavoro) e Sandra Soster (Segretaria Generale FFLC CGIL Bologna). Soster ha iniziato col fornire un quadro generale della situazione in cui si trova l’università italiana alla luce dei provvedimenti normativi degli ultimi due anni. Ripercorrendo le tappe normative più recenti che hanno preceduto il DDL Gelmini (in particolare il DDL 112/2008 poi diventato legge 133/2008) e l’ultima manovra finanziaria, ha sottolineato come, da una parte, l’opinione pubblica e tutto il mondo del lavoro siano sensibili ai tagli sulla ricerca e sui giovani, puntando il dito contro gli enti locali e le forze di opposizione che – a suo parere – hanno avuto una reazione forte e decisa solo da ultimo. Con il disegno di riforma dell’università e con la recente manovra finanziaria – ha affermato Soster – « il merito viene archiviato come una categoria dello spirito, tutti sono ugualmente colpiti, alcuni più degli altri, ossia gli assegnisti e i docenti a contratto, spazzati via come stracci al vento anche se sono stati parte attiva nella produzione dei successi nella didattica, nella ricerca, nella gestione oculata degli atenei; e poi gli studenti e la qualità dei corsi e servizi loro offerti, della prospettiva dell’aumento delle tasse; sono i giovani e i meno giovani che non riusciranno ad entrare più e a garantire all’università il ricambio generazionale». Individuati questi nodi centrali, l’esponente CCGIL ha chiesto alle forze di opposizione e agli amministratori azioni convergenti verso due obiettivi: render bravi molti e finanziare ricerca e formazione. La parola è passata quindi all’onorevole Ghizzoni, la quale iniziando dal “percorso accidentato del disegno di legge” ha ricordato come «questo disegno di legge è stato più volte annunciato nel corso dell’anno scorso, la ministra si prese più di sei mesi dal momento in cui lo annunciò in pompa magna con un seminario (a cui le forze di opposizione non vennero peraltro invitate, ma vennero invitati soltanto alcuni rettori) e finalmente in ottobre lo depositò. Ad oggi ancora il progetto non è approdato in aula, non certo – come sostiene la ministra – per i ritardi dovuti ai farraginosi regolamenti del Senato, che in realtà non sono altro che tutele delle procedure democratiche. Il DDL, che ormai da un mese ha chiuso il proprio iter in Commissione Senato, non è approdato in aula perché molte cose sono state valutate prioritarie rispetto a questo disegno di legge, tra queste il decreto sulle intercettazioni, che è stato inserito con procedura d’urgenza in aula».
Manovra finanziaria permettendo, il disegno sulla riforma universitaria dovrebbe approdare in aula intorno alla metà di luglio. Quanto alla posizione del Partito Democratico, l’onorevole Ghizzoni ha ribadito con forza il fermo no e l’opposizione decisa che il suo partito ha già fatto in commissione Senato e farà nel momento in cui il DDL arriverà alla Camera, dove probabilmente si ripartirà quasi da zero in quanto il testo non è più quello licenziato dalla Gelmini.
L’onorevole ha aggiunto: «Questo ddl ha la stessa matrice dei provvedimenti sulla scuola. Questo governo procede a ridisegnare la società – democratica, uscita dalla costituzione – in modo regressivo, reazionario e lo fa intervenendo pesantemente sul sistema della conoscenza».
Nel suo intervento, il Magnifico Rettore dell’ateneo bolognese Ivano Dionigi, pur premettendo che l’80% dei principi del DDL possono essere condivisi e che le università con i propri statuti potranno agire in piena autonomia, ha rilevato tuttavia la situazione di tagli e di “cifre ballerine” che impediscono di elaborare un piano pluriennale certo. Questa situazione di incertezza – ha afferma– è aggravata dal contesto di credibilità pari a zero dei docenti e del personale accademico. Pertanto invita i docenti a fare una severa autocritica, in particolare sulla proliferazione di corsi in seguito alla riforma del 3+2, sulla improduttività scientifica di alcuni docenti e ricercatori, sui “docenti fantasma”, sui concorsi in cui a volte la selezione è “al rovescio”. Quanto alla situazione dei ricercatori – che viene definita “patologica” – il Rettore, ribadendo la posizione di solidarietà e sostegno assunta di recente dal Senato accademico, ha sostenuto che si debba innanzitutto moralizzare l’uso di queste risorse, che i posti flessibili si debbano relazionare alle assunzioni programmate e afferma che entro la fine dell’anno verranno banditi altri 22 concorsi.
Altro punto critico del decreto, secondo il Rettore Dionigi, è la totale mancanza di sostegno al diritto allo studio. Tuttavia, a fronte di altri atenei che hanno già programmato per il prossimo anno accademico un aumento cospicuo delle tasse universitarie e una diminuzione di finanziamenti per il diritto allo studio, il rettore ha informato che gli studenti di Bologna non pagheranno un euro in più di tasse e che non è stato loro tolto nulla dai sussidi al diritto allo studio.
L’Assessore regionale alla Scuola e Università Patrizio Bianchi, – ammettendo che la riforma universitaria del 2000 è stata un’occasione mancata di trasformazione dell’università dall’interno – ha condiviso il dissenso nei confronti di quella che ha chiamato “riforma Tremontini”.
Quanto alla situazione specifica dell’Emilia Romagna, ha proposto la riapertura della conferenza Regione-università – sottolineando come la piattaforma universitaria che va da Piacenza a Rimini debba ottimizzare le risorse al meglio e questo voglia dire «verificare l’offerta didattica, verificare le competenze esistenti, il funzionamento delle strutture di ricerca», e ha suggerito ai rettori di proporre degli accordi diretti col Ministero.
A margine degli interventi degli ospiti, alcuni dei presenti tra il pubblico hanno aggiunto osservazioni, dubbi e proposte. Tra questi, il prof. Leonardo Altieri (docente del dipartimento di Sociologia) ha notato, oltre l’estrema gravità dei tagli e il problema del precariato dei ricercatori, la mancanza assoluta di coerenza tra i principi della qualità della didattica e della meritocrazia affermati dal DDL e quella che dovrebbe essere la messa in pratica di questi principi.
Michele Filippini (della Rete Ricercatori Precari di Bologna), di fronte all’importanza e al ruolo indispensabile degli assegnisti e dei docenti a contratto, che sono un “pezzo di produzione del merito di questa università”, ha chiesto al rettore un tavolo di trattative grazie al quale si possa discutere di forme contrattuali più adeguate e dignitose per i precari.
Accorato l’appello della prof.ssa Maria Giuseppina Muzzarelli (docente di Storia medievale), la quale, esprimendo il proprio “imbarazzo generazionale”, ha invitato il rettore e le forze politiche di opposizione ad essere chiari, decisi, uniti e combattivi sui punti sui quali si intende far leva, esprimendo forti dubbi sulla possibilità di conciliare elementi tra loro contrastanti quali la qualificazione di molti, la ricerca pubblica e l’assenza di finanziamenti, ed esorta tutti ad una cosciente razionalizzazione delle risorse nell’ambito delle diverse sedi universitarie della regione.
Del medesimo tono l’intervento della prof.ssa Paola Monari, di Statistica, fortemente preoccupata per la situazione attuale, che ha invitato i docenti come lei a sostenere i ricercatori (che sono una ricchezza) e a non renderla vana assumendo l’incarico degli insegnamenti che potrebbero essere rifiutati in caso di protesta. A conclusione dell’assemblea, il rettore ha ribadito: «Preferisco sfidare il Governo piuttosto che sfilare» e l’onorevole Ghizzoni, ripetendo il forte dissenso che il PD esprimerà in Parlamento, ha chiesto dei toni più accesi anche da parte dei rettori e che vi sia un’azione convergente nei confronti della protesta dei ricercatori perché «la loro rabbia è l’unica cosa che il Governo teme».

lunedì 28 giugno 2010

La protesta dei Ricercatori universitari: a colloquio con i Ricercatori di Chimica

Era la fine dello scorso 2009 quando il ministro Gelmini presentò la “Riforma dell’Università” con il DDL 1905/2009 “Disegno di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio”, mettendo subito in allarme gli atenei italiani e, particolarmente, la categoria dei Ricercatori. Gli articoli oggetto del repentino e forte dissenso sono l’8 “Istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale” e, soprattutto, il 12 “Ricercatori a tempo determinato”. Ne riportiamo i punti salienti: “per svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo pieno e determinato. Il contratto regola altresì le modalità di svolgimento delle attività di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, cui sono riservate trecentocinquanta ore annue, e delle attività di ricerca” (art. 12 comma 1); “i contratti hanno durata triennale e possono essere rinnovati una sola volta per un ulteriore triennio previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte, sulla base di modalità, criteri e parametri definiti con decreto del Ministro” (art. 12 comma 4); “le università […] possono procedere alla chiamata diretta dei destinatari del secondo contratto triennale di cui al comma 4, i quali entro e non oltre la scadenza di tale contratto, conseguono l’abilitazione alle funzioni di professore associato, di cui all’art. 8. I chiamati, alla scadenza del secondo contratto, sono inquadrati nel ruolo dei professori associati” (art. 12 comma 6).
[Per la bozza completa del decreto e per le proposte di emendamento <http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/testi/34595_testi.htm]
A qualche mese di distanza dalle minacce di sospensione della didattica per il prossimo anno accademico, quando la polemica sembra oramai spenta o comunque non interessa più i media, abbiamo chiesto ai diretti interessati qualche delucidazione in merito a questo decreto e abbiamo trovato risposta alle nostre domande da un gruppo di Ricercatori (confermati e precari) del Dipartimento di Chimica “G. Ciamician” dell’Università di Bologna.
La nostra conversazione inizia con tre ricercatori confermati, Nelsi Zaccheroni, Sonia Melandri e Marco Montalti.
Prima di addentrarci nel merito delle norme che attualmente sono ancora in discussione parlamentare, cerchiamo di delineare qual è il ruolo del ricercatore universitario oggi, anche alla luce del DPR 382/1980 (art. 1 comma 5 e artt. 30-34) che istituì tale figura.
Un ricercatore, per prima cosa, dovrebbe fare ricerca, essere l’unione tra il mondo accademico e della ricerca, lo studioso che segue gli studenti e i ricercatori di laboratorio, si occupa dei temi di ricerca in maniera fattiva, è a diretto contatto sia con i docenti con più esperienza sia con gli studenti, una sorta di anello di congiunzione tra di essi, con la peculiarità di concentrarsi proprio sulla ricerca. Nel caso del ricercatore scientifico, il ricercatore è colui che praticamente va in laboratorio. Per quanto riguarda la didattica, l’attività del ricercatore dovrebbe limitarsi soltanto alla collaborazione, fornire un supporto. Nella pratica, però, la maggioranza dei ricercatori svolge sostanzialmente la stessa attività di un professore associato per numero di ore, esami, e insegnamenti. Esistono addirittura realtà in cui il carico didattico è maggiore per i ricercatori che per i docenti. Nonostante questa sia un’attività puramente volontaria, tuttavia si tratta di una sorta di obbligo non scritto poiché esiste proprio una necessità: vi sono corsi di laurea che si reggono per più del 40% sulla docenza dei ricercatori; tali corsi non potrebbero più sussistere se i ricercatori si rifiutassero di svolgere l’attività didattica. Ma non è solo una questione di lavoro volontario; infatti questa didattica non è riconosciuta a nessun livello, né economico, né ai fini della progressione di carriera. Ma come ci si può concentrare sulla ricerca avendo un carico didattico così pesante? Per quanto riguarda le nostre rappresentanze, la situazione al momento è questa: le rappresentanze dei ricercatori esistono solo in facoltà, per cui nell’ateneo di Bologna, ad esempio, ce ne sono 3; sono, dunque, una minoranza esigua in tutti gli organi legislativi dell’ateneo, essendo invece circa un terzo delle presenze universitarie rispetto al corpo docente a Bologna, altrove anche la metà circa.

La prospettiva del Ministro Gelmini – la quale ha affermato più volte che con questa riforma finalmente si svecchierà la classe dei docenti universitari -, a vostro parere, tenta di risolvere questi problemi? Come?

L’affermazione che questa riforma abbasserà l’età media dei docenti universitari è una grandissima bufala, perché, al contrario, questo DDL andrà incontro all’invecchiamento totale dell’università. È un decreto a costo zero, si ribadisce più volte nel testo del decreto che “dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”; una riforma non si può fare in nessun settore a costo zero, se no non è una riforma ma una manovra economica. Ecco, invece, qual è la vera prospettiva, il vero disegno di “riforma” del ministro: vi sono certi tipi di piani didattici che prevedono la presenza di docenti che stanno andando in pensione o che presto vi andranno; perciò in questi anni, se si vuole mantenere la medesima offerta didattica, i corsi devono essere in qualche modo tenuti da altri. Partendo dal presupposto che i professori sono già saturi, allora o si riordina tutto il sistema oppure i corsi “orfani” di docenti vengono assunti dai ricercatori. Bisogna scegliere tra la soppressione dei corsi e l’aumento delle nostre ore di didattica.

Il decreto prevede, però, che voi possiate ottenere un’abilitazione nazionale al ruolo di professore associato, indispensabile per una eventuale successiva chiamata diretta (art. 8). In base questo e all’introduzione dei ricercatori a tempo determinato, in che modo cambierebbero le prospettive per i ricercatori (sia quelli confermati che quelli precari)?

La realtà è questa: i posti non ci sono perciò a cosa serve dare l’abilitazione per qualcosa che non c’è? Una legge senza oneri per la finanza pubblica implica che non verranno creati altri posti. In più è una legge al risparmio, nel senso che l’ultima manovra finanziaria congela tutto fino al 2014; questo vuol dire che fino al 2014 non può essere bandito nulla (indipendentemente dalle persone che vanno in pensione), inoltre non viene maturata carriera, non vengono maturati scatti. Allo stesso tempo le persone vanno in pensione e chi resta dovrà tamponare il tamponabile sempre a costo zero. Ciò vuol dire che l’università diventa ancora più vecchia anziché ringiovanire! Finito questo blocco di 4/5 anni, in teoria dovrebbero iniziare a bandire i contratti per ricercatori a tempo determinato di 3 anni + 3, probabilmente cofinanziati dai gruppi di ricerca. Il punto è questo: un gruppo di ricerca deve avere una possibilità economica per prevedere il finanziamento anche parziale di uno stipendio per un ricercatore. E ciò sarà possibile solo per i gruppi di ricerca più grossi. Inoltre – ci chiediamo – quanti saranno disposti ad accettare una situazione di estrema precarietà senza alcun tipo di prospettiva futura garantita, neanche sul lungo periodo? Bisogna considerare che chi può ottenere un incarico di questo tipo è una persona mediamente di 30 anni, che a quell’età si impegna ad assumersi un ruolo da precario fino a 36/37 anni e poi? Possono tranquillamente mandarti a casa. Un altro grosso problema che aggrava questa situazione in Italia è che nel nostro paese la ricerca si fa quasi solamente all’università, per cui non è pensabile dire “io non favorisco la ricerca ma favorisco l’università”. Prendiamo come esempio il settore chimico: in Italia esistono solo pochissime industrie che fanno ricerca e molte se ne stanno andando (ad es. di recente la Glaxo di Verona [http://www.repubblica.it/economia/2010/02/14/news/glaxo_campus-2292771/]). In Italia è rarissima la possibilità di trasferirsi dall’università all’industria. Quindi o si va all’estero o si fa un altro lavoro. Si è costretti a scegliere di buttar via tutta la competenza che hai sviluppato, tutto lo studio che hai fatto, oppure di trasferirsi all’estero.
Per non parlare del fatto che questi ricercatori a tempo determinato avranno da subito un enorme carico didattico; mentre noi da giovani ci siamo avvicinati gradualmente alla didattica, prima affiancando i docenti nei corsi e negli esami avendo comunque il tempo per dedicarci alle nostre ricerche, queste nuove figure, con enormi carichi didattici, non faranno bene né la ricerca – per mancanza di tempo - e nemmeno la didattica a causa della loro inesperienza. Infine, le nuove leve che verranno assunte andranno a competere direttamente con noi ricercatori confermati nella chiamata diretta: infatti quando fra 6 anni circa una facoltà dovrà chiamare un professore associato, sceglie il ricercatore a tempo determinato già presente nell’organico oppure un confermato che altrimenti perderà? Si creerà una guerra tra poveri imbarazzante e spiacevole anche da un punto di vista umano (magari il ricercatore a tempo determinato è un tuo studente…). Insomma, questo decreto va nella direzione di favorire la didattica per coprire le lacune che lasceranno i molti pensionamenti degli ultimi e dei prossimi anni, e danneggia enormemente la ricerca, perché non c’è solo un taglio dei fondi ma anche del tempo. È soltanto una soluzione momentanea e tra 6 anni il problema si riproporrà.

Che cosa pensate della proposta di denominare i ricercatori “professori di terza fascia”?

La proposta del professore di terza fascia – fatta già dalla Moratti – è offensiva. Tra l’altro è una cosa che in qualche modo esiste già, perché se un ricercatore tiene un corso, può chiedere di essere riconosciuto come “professore aggregato”. Che una legge costituisca una terza fascia per bonificare questa situazione per cui un ricercatore non potrebbe fare didattica e allora viene chiamato “professore di terza fascia” a costo zero, vuol dire che io faccio lo stesso lavoro del professore di seconda fascia e ma sono di terza. Sei comunque un docente di “serie B”; non è tanto una questione di stipendio ma proprio di status. Non cambierebbe nulla neanche in merito alle rappresentanze. Si tratta, a nostro parere, di una presa in giro offensiva. Inoltre, con la messa in esaurimento, non avremmo diritto a nessuna rappresentanza. Quindi funzionerebbe così: sei assunto, fai ricerca, fai didattica, puoi essere sfruttato benissimo come adesso, però adesso tutti lavoriamo perché abbiamo una prospettiva, per una costruzione di un futuro; dopodiché il futuro ti viene tolto, però ti viene chiesto di continuare a fare la stessa cosa. Non è una cosa accettabile. Bisogna dire, tuttavia, che
Alcuni sono a favore di questa “etichetta” consolatoria, probabilmente perché ritengono che, cambiando nome, possa aumentare il rispetto dei colleghi oppure si accontentano perché preferiscono non essere valutati. Invece noi come la maggior parte dei ricercatori non vogliamo un semplice bollino di terza fascia. Chiediamo che ci sia data una chance, perché siamo persone che hanno investito parecchio nella ricerca e nella didattica e ritengono di aver diritto ad essere valutati in tempi accettabili e a ritmi certi affinché ai meritevoli venga permesso il passaggio di ruolo.

Entriamo ora nel merito della protesta. Anche voi vi asterrete dall’attività didattica o attuerete forme diverse di protesta?

A Bologna ci siamo mobilitati da diversi mesi, abbiamo avuto diverse assemblee, anche il Rettore è intervenuto alla prima assemblea; in quella sede si è fatto il punto della situazione, è stata redatta un’indicazione di un documento finché i vari ricercatori delle diverse facoltà hanno portato avanti un documento condiviso in cui esprimevamo il disagio e la resistenza rispetto ai provvedimenti di questa legge e l’idea di attuare delle forme di protesta, quali quella di non dare la disponibilità all’attività didattica per il prossimo anno accademico. La risposta delle facoltà è stata abbastanza buona, non tutte le facoltà ancora si sono riunite e hanno dato una risposta, però nel frattempo i nostri documenti sono stati portati in Senato accademico, il quale ha redatto una mozione in cui appoggia la nostra protesta (cosa che anche il CRUI aveva fatto) e chiede che vengano prese in considerazione le nostre richieste. Un altro appoggio è venuto dalla Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Teconologie (con.Scienze www.conscienze.eu ) che, oltre ad appoggiare con una mozione la nostra protesta e le nostre richieste, sottolinea come in Italia la ricerca scientifica abbia luogo prevalentemente all’interno delle università e degli enti di ricerca pubblici, mantenendo un alto livello nonostante la continua e distruttiva diminuzione delle risorse e lo scarso ricambio di personale; precisa inoltre che non sarà possibile mantenere tale livello, in una situazione che nei fatti spinge i giovani brillanti ad andare all’estero e compromette il vitale ricambio generazionale reso necessario dall’elevatissimo numero di pensionamenti di questi e dei prossimi anni. Quanto alle modalità di protesta, avremmo potuto rifiutare immediatamente l’assunzione di incarichi didattici da subito; la differenza fondamentale della posizione di Bologna rispetto ad altre università è che i ricercatori di Bologna, per il momento, accettano gli incarichi e si riservano di rifiutarli più tardi, altre università, invece, decidendo di rifiutarli subito, non permetteranno l’attivazione di alcuni corsi. Ciò dipende dal fatto che aspettiamo di vedere il decreto per come uscirà nella sua veste definitiva. Di forme di protesta alternative non ce ne sono. L’unica protesta possibile è la sospensione della didattica. Alcuni atenei hanno deciso che subito le cose allo stato attuale erano inaccettabili, per cui non hanno dato la disponibilità. L’ateneo di Bologna ha adottato un’altra linea e la maggioranza ha votato per non ritirare la disponibilità immediatamente, ma di aspettare la conclusione dell’iter della legge, visto che c’è una protesta in atto, e di vedere la risposta del governo. Abbiamo deciso così in maniera più che ottimistica, pensando che se il governo risponde in maniera positiva alle nostre proteste e si giunge ad un accordo, i corsi sono comunque stati attivati e gli studenti potranno usufruirne (cosa impossibile se avessimo optato per il ritiro immediato della disponibilità). Il messaggio che vogliamo far passare è: noi vogliamo il dialogo e, se ci ascolterete, andremo avanti normalmente con la didattica. Se poi non dovesse essere così, allora all’inizio del nuovo anno accademico, nel momento in cui i corsi dovranno partire, questi verranno fatti tacere per l’indisponibilità dei ricercatori, e forse questa modalità di protesta può risultare ancora più forte. Come forma di dissenso è l’unica per farsi sentire, perché il resto del lavoro del ricercatore è un lavoro che non ha un impatto immediato, diretto sulla popolazione, per cui , ad esempio, se io non vado in laboratorio a fare ricerca, creo un diretto disagio a pochi. Lo scopo è anche quello di dimostrare che senza i ricercatori l’università italiana non può funzionare, salta tutto il sistema, condizione che non dovrebbe esistere perché esistono delle figure preposte alla didattica, e diventa paradossale che poi proprio il ricercatore che svolge quel ruolo venga privato della possibilità di diventare professore.

I ricercatori di Bologna quali proposte hanno avanzato?

Noi ricercatori di Bologna, di fronte ad un decreto che mette in esaurimento il nostro ruolo, non riconosce il lavoro effettivamente svolto da tempo (e che presumibilmente continuerà ad essere svolto nei prossimi anni) nella didattica, ci esclude dalle commissioni per i concorsi universitari e dalla rappresentanza negli organi collegiali, per difendere la dignità della ricerca e della figura accademica del ricercatore, vogliamo evidenziare questi punti critici: 1) nonostante il testo emendato del DDL preveda un percorso identico per i ricercatori a tempo indeterminato e le nuove figure dei ricercatori a tempo determinato nella procedura di reclutamento dei professori di seconda fascia, si prospettano situazioni potenzialmente conflittuali al momento delle chiamate dirette, che prevedibilmente privilegerebbero i ricercatori a tempo determinato, al fine di scongiurarne la fuga dalle università; 2) il decreto vincola le risorse alla provenienza dei candidati, suddividendole in quote riservate al personale interno all’Ateneo e quote riservate a personale esterno, approccio per noi iniquo e ingiustificato, in quanto i criteri adottati nelle procedure di selezione dovrebbero essere basati unicamente su valutazioni del merito; 3) inoltre, perseguendo l’obiettivo della riforma a costo zero, non vi sono le risorse economiche necessarie a garantire a tutti i ricercatori, in tempi accettabili e a ritmi certi, il diritto ad essere valutati, permettendo ai meritevoli il passaggio di ruolo; 4) infine, i nuovi meccanismi proposti nel DDL portano a significative riduzioni stipendiali per i ricercatori a tempo indeterminato.

Dopo aver sentito il parere dei ricercatori confermati, veniamo invitati in laboratorio dove ci aspettano Matteo Amelia, assegnista di ricerca, e Monica Semeraro, dottoranda. Vogliamo conoscere anche il loro punto di vista su questo decreto.

Le proteste nei confronti del DDL Gelmini sono portate avanti soprattutto dai ricercatori confermati per i motivi di cui abbiamo parlato prima. Quanto a voi precari, invece, ritenete che questo decreto produrrà dei miglioramenti della vostra situazione?

Se guardiamo alla nostra situazione, probabilmente non cambia molto: zero speranze avevamo prima, altrettante ne abbiamo adesso. La cosa che, però, a nostro parere aggrava l’attuale situazione è che aumenteranno gli anni di precariato. Se prima, infatti, passavano circa 8 anni tra dottorato e assegni di ricerca, con il decreto, attraverso l’introduzione dei contratti a tempo determinato di 3 anni + 3 rinnovabili, si arriva a quasi a 13 anni di precariato, dopo i quali ti si può mandare tranquillamente a casa. Non c’è nessun tipo di garanzia perché con questa legge non vengono investite risorse, che anzi vanno sempre diminuendo. Riformare un sistema può andare anche bene, l’università va certo riformata, ma con questo decreto l’università non diventa meritocratica, come si vuol far credere. Attualmente il merito è solo “sulla carta”, in quanto spesso i concorsi non sono rigidi, ma dopo questo decreto la qualità e il valore degli studiosi sarà considerato ancor meno! Basti pensare al fatto che, per ottenere l’abilitazione a professore di seconda fascia, non viene effettuata alcuna valutazione comparativa; inoltre ci sarà la chiamata diretta da parte delle facoltà… ripeto, è vero che i concorsi per come si svolgono ora non si basano sempre sul merito, ma con la chiamata diretta sarà completamente impossibile! Anzi, in qualche modo si legalizza l’andazzo che c’è adesso. Crediamo che il concorso serva, ma che vada ancora più regolamentato perché adesso non vi sono dei criteri oggettivi di valutazione. C’è invece chi dice “guardiamo l’estero, dove c’è la chiamata diretta”, però probabilmente in Italia non abbiamo la “cultura” per poter agire in questa maniera. All’estero è presente, sì, la chiamata diretta come modalità di reclutamento, ma gli studiosi fanno più esperienza rispetto agli italiani, studiano con diverse persone e in posti diversi, hanno modo di confrontarsi con molte realtà. In Italia, invece, devi laurearti, fare il dottorato di ricerca, fare l’assegnista e il ricercatore sempre con lo stesso professore, sempre nello stesso posto; anzi, se vai via, rischi il tuo posto, quando invece l’accumulare esperienze diverse dovrebbe essere un valore aggiunto. In questo modo non può esserci meritocrazia, ma solo sudditanza. Per quanto riguarda la protesta dei ricercatori confermati, riteniamo assurdo che si voglia far diventare a tempo determinato, precario, un ruolo che è fondamentale all’interno dell’università, che è per eccellenza a lungo termine. Inoltre il ricercatore dovrebbe entrare nell’età in cui è più produttivo scientificamente, in cui possa dedicare più tempo al lavoro e dovrebbe avere la tranquillità di fare il proprio lavoro, cosa che è già difficile ora, lo sarà ancor di più dopo questa riforma.

È paradossale, ma, una volta introdotta la figura del ricercatore a tempo determinato, i precari come voi nella chiamata diretta potrebbero concorrere con i ricercatori confermati.

Anzi addirittura potremmo passar davanti a loro. Questo creerà un attrito enorme e situazioni difficili proprio da un punto di vista umano tra persone che per anni hanno lavorato insieme; questo nel lavoro di ricerca, che dovrebbe essere un lavoro di squadra e di profonda collaborazione, è deleterio. Per non parlare del problema dei finanziamenti per questi contratti; si tratta di un aspetto molto oscuro nell’attuale testo di legge.

Però si potrebbe dire – soprattutto a studiosi di ambito scientifico – “Sicuramente troverete anche in Italia lavoro nel privato, in aziende che fanno anche ricerca”.

La questione non è così semplice, perché la ricerca in Italia si fa per la stragrande maggioranza nell’ambito dell’università; le aziende che la fanno sono pochissime, alcune importanti hanno chiuso di recente, quindi anche al di fuori dell’ambito accademico per persone qualificate è difficile inserirsi. Anzi, per un posto di lavoro (non da ricercatore) in un’azienda del nostro settore, ad una persona titolata e qualificata (con dottorato, esperienza all’estero ed esperienza di ricerca) viene preferito un neolaureato perché può essere inquadrato in un profilo più basso. Insomma, la nostra competenza acquisita con anni di studio, di ricerca e numerosi sacrifici non è riciclabile.

Tornando al discorso delle risorse da investire nella ricerca, si ha l’impressione che il filo rosso che percorre il testo della legge sia che tutto deve avvenire senza oneri per la finanza pubblica.

È così da decenni, qualunque riforma o legge che riguarda l’università è stata fatta seguendo questo principio. Questo governo si sta impegnando con particolare zelo nell’operazione di dissanguamento della ricerca e dell’istruzione in genere, ma il problema è che anche gli altri governi non hanno mai attuato delle politiche forti e di finanziamento nei confronti dell’università. Poi c’è da considerare anche questo: siccome si parla di dare le risorse ai centri di eccellenza, bisogna vedere anche in base a quali criteri viene valutata l’università. Se il numero di laureati diventa un criterio importante per valutare la qualità di un ateneo e, di conseguenza, per ottenere anche i fondi, allora il passo verso il “diplomificio” è brevissimo. Ne va proprio della qualità dell’istruzione di base che, secondo noi, al momento è a livelli molto alti rispetto all’estero. Noi abbiamo studiato anche negli Stati Uniti e abbiamo constatato che, per quanto riguarda la preparazione di base, eravamo ad un livello superiore. I ricercatori italiani, nonostante tutto, sono bravi perché riescono a fare il proprio lavoro e a metterci ancora passione nonostante tutte le difficoltà; invece all’estero non solo hanno i mezzi, ma sanno anche investire il loro tempo in qualcosa che otterranno sicuramente, vengono comunque pagati molto di più anche quando sono precari rispetto a noi e, in generale, godono di maggiore considerazione. Per dare prospettive, dunque, bisogna dare più risorse all’università. È vero che ci sono molti sprechi, però vanno individuati con attenzione e, soprattutto, vanno ascoltate le persone che nell’università ci lavorano; si tratta di una realtà troppo complessa, dall’esterno non si riesce ad avere una percezione giusta. Noi ci sentiamo sottopagati, ma dobbiamo ammettere che c’è gente nell’università che per quello che fa viene pagata sin troppo. Forse come prima cosa bisognerebbe colpire quelle situazioni che sono sotto gli occhi di tutti: il docente che a ricevimento non c’è mai o che non fa le ore di didattica che dovrebbe, l’avvocato o il medico che svolge parallelamente all’incarico universitario la libera professione. Ma questa critica non dovrebbe nemmeno venire dall’esterno, bensì dalle persone che fanno il proprio lavoro che sono già all’interno dell’università. Evidentemente non c’è questa volontà. Noi che siamo in una situazione precaria possiamo solo esprimere il nostro dissenso, ma ci sarebbe bisogno di qualcuno che agisse efficacemente. Purtroppo piace mantenere questa condizione di subordinazione, di sudditanza psicologica; i docenti non dovrebbero esercitare alcun potere, ma se lo sono creati nel tempo e non vogliono perderlo, perciò è difficile che una riforma parta dall’interno dell’università perché proprio coloro che avrebbero il potere, i mezzi per cambiare le cose, non vogliono perdere questa situazione di privilegio che si sono creata col tempo. Dispiace, poi, vedere che quando si parla pubblicamente di università, la discussione venga affidata a persone che non conoscono affatto questo mondo, che non vi sono dentro, sia da una parte politica che dall’altra. Solo gli addetti ai lavori possono capire e far capire la situazione reale, perché è un mondo talmente complesso, che sulla carta funziona in un modo ma nella pratica in un altro, che se non ci stai dentro fai fatica a capirne i meccanismi.

Dopo più di un’ora di conversazione appassionata, lasciamo andare i ricercatori al proprio lavoro. Nel concludere il resoconto di questo colloquio, ci piace sottolineare come la menzione dello stipendio sia stata, nelle dichiarazioni degli intervistati, quasi marginale, frequenza inversamente proporzionale all’espressione “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” che segna ogni articolo di questo decreto.

Intervista a cura di Emanuela De Luca e Bijoy M. Trentin

sabato 29 maggio 2010

Il tirocinio nella formazione dei futuri insegnanti

Intervista a Eugenia Lodini
A cura di Bijoy M. Trentin e Emanuela De Luca



La formazione dei futuri insegnanti è tema molto attuale, poiché dovrebbe anche essere approvato presto un decreto che ridisegnerà i percorsi universitari che consentiranno l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado. A questo decreto, purtroppo, non si accompagna ancora oggi una legislazione (efficace) relativa al reclutamento: sarà necessario, invece, individuare al piú presto le strade da percorrere per poter contemplare le ‘esigenze’ sia degli abilitati con il nuovo sistema previsto sia dei cosiddetti precari storici, secondo modalità e criteri validi su tutto il territorio nazionale, pur nel rispetto delle peculiarità e delle necessità locali. Nel dibattito si è fatto riferimento largamente al ruolo e allo ‘spazio’ del tirocinio: cosí abbiamo rivolto alcune domande su questo argomento a Eugenia Lodini (http://www.unibo.it/docenti/eugenia.lodini), Professore ordinario di Pedagogia sperimentale presso l’Università di Bologna. [B.M.T.]


Il tirocinio è ritenuto fondamentale nel processo di formazione dei futuri insegnanti: quali sono le sue peculiarità pedagogico-didattiche?

Sono fortemente convinta dell’importanza del tirocinio; tra l’altro nella formazione iniziale degli insegnanti – almeno dei maestri – è sempre stato presente il riferimento al tirocinio, anche se prima che diventasse un’esperienza universitaria esso era una sorta di “cenerentola”. Dal momento in cui la formazione è passata all’università, è aumentato il senso e il valore del tirocinio. Nei modelli di formazione iniziale, sia per la scuola dell’infanzia e primaria, sia per la scuola secondaria, il tirocinio è sempre stato l’anello di congiunzione fra l’università e la scuola, e questo è il suo ruolo importante, perché esso si tratta di una forma di apprendimento dall’esperienza diversa dal tipico apprendimento che avviene nei laboratori e nei corsi universitari. Focalizzare l’attenzione sull’apprendimento dall’esperienza è importantissimo, come altrettanto importante è che l’istituzione formativa rifletta su che cosa va appreso attraverso il tirocinio, che cosa attraverso i corsi e che cosa attraverso le attività laboratori ali. Esistono degli studi su questo, proprio per vedere quali sono i contenuti, le conoscenze e le abilità che si possono veicolare bene con il tirocinio. Vi sono poi due modelli sostanzialmente che si contrappongono: il modello del tirocinio come luogo o come esperienza in cui vai ad applicare le conoscenze teoriche che hai appreso, cioè “tutto quello che dovevo imparare l’ho imparato all’università e adesso vado a scuola e lo applico nella pratica”; l’altro è un modello che qui a Bologna abbiamo chiamato di “integrazione problematica” tra la formazione teorica e la pratica: vado a scuola, “raccolgo” una serie di conoscenze e di abilità tipiche che è fondamentale apprendere dall’esperienza e poi le riporto nel mio percorso formativo e, insieme, ho acquisito delle conoscenze nel mio percorso formativo e vedo come sono realizzate nella pratica. Questo tipo di modello non è di applicazione di quello che ho appreso ma di interazione di quello che viene appreso nella situazione della scuola e di quello che viene appreso all’università. Il tirocinio può essere, inoltre, diretto e indiretto: il tirocinio diretto è svolto nella scuola ed assegna un ruolo molto importante alla riflessione sull’esperienza e alla documentazione; il tirocinio indiretto, invece, si svolge all’interno dell’università, ma ritengo che parlare della scuola nell’università sia utile prima dell’esperienza, come momento preparatorio, e dopo, come momento di riflessione, ma resta imprescindibile il fatto che lo studente debba fare esperienza all’interno della scuola.
Infatti il tirocinio ha un’altra importante funzione di tipo pedagogico-didattico: di orientamento allo studente, che, quando va a fare il tirocinio, capisce effettivamente come va agìta la professione e quindi si rende conto se è una professione che nella sua realizzazione pratica corrisponde alle sue aspettative, ai suoi desideri, e se preferisce orientarsi verso la scuola primaria o dell’infanzia. Adesso le nuove proposte fanno pensare ad un corso di laurea con uno sbocco unificato, cioè formerà un insegnante che può insegnare sia nella scuola dell’infanzia che nella scuola elementare; allora a maggior ragione sarà importante che il tirocinio si svolga in entrambi gli ordini di scuola in modo che lo studente possa capire qual è lo scenario per cui si sta preparando.

Quali sono le caratteristiche del tirocinio attivato presso l’Università di Bologna?

Caratteristica importante dell’esperienza di tirocinio è [A] che si svolge sempre durante la formazione, questo è molto importante; esistono anche altri modelli di tirocinio e c’è stata anche un’epoca in cui si pensava che la formazione dell’insegnante avvenisse con quell’anno successivo alla conclusione dei corsi (come succede per il corso di laurea in Psicologia: prima ti laurei e poi fai l’esperienza di tirocinio); invece qui il modello su cui noi pedagogisti abbiamo insistito è quello del tirocinio durante proprio per quello che dicevamo prima, cioè per la possibilità di modulare gli obiettivi del tirocinio in relazione agli obiettivi dei corsi e dei laboratori, e anche per permettere l’ interazione tra la cultura della scuola e la cultura dell’università; [B] il passaggio progressivo da una semplice fase di osservazione all’attività di coinvolgimento; [C] altro elemento fondamentale del tirocinio è la presenza del supervisore; questa è stata una delle innovazioni, sia nelle SSIS che nel corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria, quella di prevedere il distacco all’università di insegnanti e di dirigenti scolastici, che si occupano in particolare di gestire questa esperienza. Complessivamente, a mio avviso, è stata un’esperienza molto positiva pur con notevoli difficoltà, perché il maestro che viene distaccato all’università è abituato a lavorare con dei bambini e, trovandosi a lavorare con dei giovani adulti, deve evitare di avere un atteggiamento di maternage e cercare di sviluppare un atteggiamento critico. Nel contempo, è anche un elemento molto importante perché è una figura che conosce dall’interno l’esperienza scolastica. Direi che questo è stato uno degli aspetti estremamente positivi del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria come delle SSIS. [D] Altro aspetto importante: dal nostro punto di vista è sempre stato fondamentale apprendere dall’esperienza ma anche riflettere sulla propria esperienza di apprendimento. Quindi il tirocinio non è semplicemente una full immersion nella pratica, ma è un’attività in cui è fondamentale la riflessione sull’esperienza, che si può fare in vari modi; per esempio noi abbiamo molto insistito su strumenti specifici (il diario dell’esperienza, la documentazione dell’esperienza, la relazione sull’esperienza stessa) proprio come strumenti per fare riflettere e documentare quello che si è fatto. Siccome poi la documentazione è una delle pecche degli insegnanti, che non documentano abbastanza quello che fanno, cerchiamo anche di metterlo come obiettivo indiretto per abituare i futuri insegnanti a farne un elemento della loro professionalità. Inoltre, a Bologna abbiamo prodotto dei materiali scritti sull’esperienza del tirocinio, i supervisori hanno scritto dei libri sulla loro esperienza, sul sito della facoltà è presente tutta l’elencazione delle procedure del tirocinio, degli strumenti che sono utilizzati [http://www.scform.unibo.it/Scienze+della+Formazione/Didattica/Tirocini/sfp_tirocinio.htm].

Quali conformazioni strutturali ha avuto nel tempo l’organizzazione del tirocinio per la formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria?

Nelle SSIS – per quanto ne so io – è stato molto accentuato il ruolo di tirocinio attivo da parte dello studente che va e fa una sua parte di lezione o un piccolo segmento; invece in Scienze della Formazione Primaria abbiamo dato anche molta importanza alla fase dell’osservazione: essendo distribuito in quattro anni di corso, è un tirocinio che parte da una fase esclusivamente osservativa e arriva solo alla fine dei quattro anni a una fase in cui l’insegnante in formazione assume un ruolo attivo.

Sempre con lo stesso insegnante?

Assolutamente no; anzi, siccome il biennio è uguale per tutti, sia che poi uno nel secondo biennio scelga di fare Scuola dell’Infanzia sia che scelga Scuola Primaria, tendenzialmente nei primi due anni il tirocinio deve essere svolto in entrambi i due ordini di scuola, poi dopo nell’ordine che è stato scelto.

L’organizzazione attuale del tirocinio dovrebbe essere mantenuta oppure dovrebbe essere modificata? Come?

Migliorare si può sempre, però i punti centrali credo che vadano mantenuti (d’altra parte anche la bozza Israel va in questa direzione): tirocinio durante sicuramente, tirocinio nei vari ordini di scuola sicuramente, tirocinio con i supervisori altro elemento fondamentale; direi che questi aspetti vengono salvaguardati, perché personalmente ritengo che il tirocinio sia fondamentale nella formazione, ma il tirocinio senza la riflessione, senza la teoria è una pratica inutile perché è cieca, non è trasmissibile, non ha senso, il tirocinio deve essere l’occasione di fare quelle esperienze che sono topiche, che possono essere realizzate solo all’interno della pratica quotidiana. Per esempio, se io non mando uno studente ad assistere ad un collegio dei docenti, egli non capirà mai di che cosa si tratta leggendo la normativa, oppure non riuscirà a capire che cosa vogliono dire le relazioni tra pari, la presa delle decisioni; posso spiegarglielo, ma non è la stessa cosa. È una conoscenza situata, va appresa in questo modo. Dunque non enfatizziamo, ma la mia filosofia è: scegliamo che cosa è importante che si faccia nel tirocinio rispetto a che cosa è importante che si faccia nel laboratorio rispetto a che cosa è importante che si faccia in un corso, rispetto, infine, a che cosa è importante che si faccia nell’attività individuale dello studente.

A proposito di laboratori, in che cosa si differenziano questi dal tirocinio?

I laboratori sono presenti in vari corsi di laurea, (lo prevede anche la 270, anche nella SSIS) e sono una forma di tipo didattico caratterizzata da un numero limitato di studenti, attorno a una trentina, e hanno la funzione di passaggio dalla teoria alla pratica; vale a dire, sono delle situazioni in cui gli studenti si mettono alla prova nell’analisi, nella produzione di forme culturali o didattiche particolari; per esempio vi sono laboratori di area disciplinare, allora in questo caso sono di didattica della matematica piuttosto che di didattica di discipline linguistiche; poi vi sono i laboratori di tipo psico-socio-pedagogico, per esempio la metodologia del lavoro di gruppo, o la produzione di prove di valutazione o la letteratura per l’infanzia. Però non sono dei corsi di lezione, sono dei corsi in cui un conduttore con il suo gruppo a partire dall’analisi di una certa problematica fa fare un’esperienza diretta agli allievi. Il nucleo centrale del discorso è: il laboratorio è un corso in piccolo? Se la risposta è così è sbagliata. Il laboratorio è una diversa forma di mediatore didattico, quindi è qualcosa che richiede all’allievo di mettersi in prima persona a sperimentarsi in attività che può utilizzare anche nella sua esperienza di insegnante e, prima di arrivare alla sua esperienza di insegnante, nella sua esperienza di tirocinante. È una sorta di ponte: dal corso, che è teorico, al laboratorio, in cui la teoria si coniuga con l’esperienza didattica di ricostruire dei percorsi, al tirocinio, in cui questo può esser messo in pratica.

La nuova bozza di regolamento per la formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria prevede (salvo prossime modificazioni) l’accesso, la frequenza e il superamento di un anno di Tirocinio Formativo Attivo. Leggendo la bozza si ha l’impressione che poco sia cambiato rispetto al funzionamento delle vecchie SSIS, cioè che vi sia solo un ridimensionamento temporale (probabilmente dovuto alla tendenza a “razionalizzare”): cosa ne pensa? Come ritiene che debba essere organizzata la formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria?

TFA: è un terreno un po’ più delicato, perché, l’impressione di una semplice riduzione temporale, l’ho avuta anch’io; d’altra parte era stata aumentata di un anno la formazione precedente, quindi con il 3+2 gli anni sono diventati cinque, mentre prima erano quattro. Però il problema mi sembra un altro: nella proposta che è venuta fuori si ha un’impressione di non omogeneità; c’è, sì, un’accentuazione del discorso del tirocinio, però i corsi di scienze dell’educazione e quelli delle materie legate all’abilitazione sono molto separati, mentre nella costruzione del progetto di tirocinio si dovrebbero fondere. Anche prima nella SSIS, le attività di tirocinio erano più legate esclusivamente all’ambito disciplinare: i corsi di scienze dell’educazione erano fatti al primo anno e rimanevano staccati. Questo è un elemento che secondo me non va bene. Da questo punto di vista bisognerebbe istituire dei laboratori da cui scaturiscono i progetti di tirocinio in modo che si fondano le competenze di scienze dell’educazione e quelle delle singole discipline. Esempio: un conto è se io faccio lezione di docimologia e sulla valutazione, un conto è se poi devo andare a ragionare su “come fai la valutazione di questo progetto?”, la valutazione di questo progetto ha a che fare con i tipi di obiettivo, di attività per cui devi mettere in sinergia questo elemento. Poi c’è un altro fattore che è di tipo istituzionale ma che avrà la sua importanza: dove saranno situati questi TFA? Presso una Facoltà come la nostra di Scienze della Formazione o presso le singole facoltà? La SSIS aveva avuto il grande pregio culturale di dire “la formazione degli insegnanti è trasversale rispetto alle facoltà”.

Però ora si stanno ideando lauree magistrali all’interno delle singole facoltà…

Le magistrali sì, ma le magistrali specifiche in cui sono previsti insegnamenti di scienze dell’educazione non ancora. Vi è comunque una diminuzione dello spazio per le scienze dell’educazione tenendo conto sia delle magistrali che del TFA. Bisognerà fare uno sforzo per identificare dei nuovi modelli per questo tirocinio formativo attivo, che peraltro poteva già essere attivato quest’anno e non è stato attivato e che non verrà secondo me attivato nemmeno il prossimo anno perché il risparmio nella scuola si attua non solo con i tagli al personale, ma anche con il “blocco della produzione” di nuovi insegnanti.

C’è la possibilità di formare i formatori, in particolar modo quelli dell’area disciplinare, che naturalmente non provengono da percorsi pedagogico-didattici?


Quello della formazione dei docenti universitari, di quelli che fanno didattica universitaria è un tema abbastanza nuovo in Italia; però già qui a Bologna ci sono state delle ricerche in questa direzione, ad esempio da parte del Centro Interdipartimentale della Ricerca Educativa, che è uno dei punti cardine, che è anche l’istituzione da cui partì il discorso della formazione degli insegnanti e la SSIS. Sicuramente c’è un problema da questo punto di vista, però man mano si è formata una cultura per esempio attorno ai laboratori (tra poco uscirà un testo sui laboratori fatto dai nostri supervisori nella formazione dei corsi abilitanti speciali, formazione comunque iniziale degli insegnanti), come luogo-spazio di creazione di una cultura diversa, di una cultura del sapere e del saper fare. D’altra parte anche nel passato vi era l’idea del laboratorio (penso ai CEMEA per esempio, al Movimento di Cooperazione Educativa) finalizzato a creare delle esperienze educative. Se prevediamo all’interno del TFA una maggiore integrazione fra le scienze dell’educazione e le discipline nel progettare certi interventi, certe attività, penso che sia un vantaggio per tutti: le scienze dell’educazione hanno bisogno delle discipline per poter vedere come si applicano i propri principi nel contesto reale, ma l’applicazione richiede dei principi generali. Molto dipenderà dall’organizzazione, anche di spazi per fare sperimentazione di forme pedagogico-didattiche diverse, anche perché ci sono ambiti disciplinari che sono più avanti nella didattica disciplinare, altri più indietro.


Maggio 2010