lunedì 20 dicembre 2010

Fuori e dentro il Parlamento. L'Iter delle Legge Gelmini.

Emanuela De Luca

Dove eravamo rimasti - Prima dell’estate abbiamo dato voce alla preoccupazione dei ricercatori e degli studenti universitari nei confronti del disegno di legge Gelmini, il cui approdo alla discussione parlamentare era slittato al 14 ottobre. I timori espressi allora si sono manifestati in tutta la loro gravità all’inizio dell’anno accademico, poiché da parte del Ministro non vi sono stati passi indietro né tantomeno cenni di apertura alle proteste provenienti dal mondo universitario. Inevitabile, dunque, l’acuirsi delle forme di mobilitazione e la minaccia che tutti temevano: il no di molti ricercatori a tenere i corsi per il nuovo anno, decisione che avrebbe fatto saltare l’avvio di molti corsi di laurea in quanto un numero elevato di ricercatori risulta titolare di insegnamenti (in alcuni casi la percentuale dei ricercatori che svolge anche attività didattica all’interno di un corso di laurea arriva al 40%).
La posizione della CRUI - Di fronte a tale situazione, i rettori hanno usato il pugno duro, soprattutto all’inizio dell’anno accademico, affermando che sarebbero state bandite delle docenze a contratto per rimpiazzare i vuoti lasciati dai ricercatori. La peggiore delle soluzioni, in quanto comporterebbe una ulteriore spesa (il finanziamento, seppure a prezzi stracciati, di nuovi contratti) e il rischio di abbassamento della qualità della didattica (poiché i nuovi contratti potrebbero anche essere assegnati a persone che non hanno mai tenuto un corso universitario). È seguita una mozione della CRUI (la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) del 23 settembre, la quale, pur ribadendo la necessità di garantire il diritto degli studenti al regolare corso dell’anno accademico, comprende il disagio dei ricercatori e sollecita il Governo a rendere certi i tempi e le entità dei finanziamenti per l’Università. Tuttavia, dopo pochi giorni,il Presidente della CRUI, Enrico Decleva, preoccupato che la calendarizzazione al 14 ottobre della discussione parlamentare sul DDL Gelmini, proprio alla vigilia dell’inizio della Sessione Bilancio, potesse portare “molto probabilmente, nell’attuale situazione di instabilità politica, alla rottamazione anticipata del provvedimento”, afferma che “è indispensabile che si ritorni sul calendario dei lavori in Aula garantendo lo spazio per la discussione in tempo utile del provvedimento”. Velatamente, ma neanche troppo, la CRUI dimostrava la volontà che questo DDL venisse approvato e in tempi brevi.
La mobilitazione e le forme di protesta - La mobilitazione ha visto in prima fila soprattutto l’università di Bologna: dopo un iniziale pugno duro, il Senato Accademico dell’Alma Mater ha accolto e fatto proprio un documento proposto dal Rettore Ivano Dionigi e dai Presidi di Facoltà con il quale l’inizio delle lezioni è stato posticipato al 5 ottobre ed è stata deliberata dal 27 settembre all’1 ottobre una settimana di riflessione e confronto su alcuni dei temi più rilevanti e più critici del sistema universitario (quali l’autonomia, il diritto allo studio, il sistema di governance, le risorse, le nuove politiche di reclutamento e lo status degli attuali ricercatori). Tutto ciò per far conoscere la reale situazione delle università pubbliche e i motivi del disagio espresso dai ricercatori e per elaborare proposte sulla legge di riforma da sottoporre agli interlocutori istituzionali e politici. Le iniziative sono state numerose: seminari, incontri pubblici, assemblee dei ricercatori sono stati organizzati nelle varie facoltà dell’ateneo bolognese (il 29 settembre la mobilitazione ha coinvolto anche attori esterni all’università: il mondo della scuola e del teatro, anch’essi colpiti pesantemente dalla scure dei tagli economici) e sono state accompagnate da numerosi momenti di protesta (ad esempio lo sciopero nazionale dell’8 ottobre di un’ora in tutti i comparti della conoscenza).
Oltre alla settimana di mobilitazione per l’università, i ricercatori hanno organizzato ulteriori assemblee, per definire in maniera precisa le proposte da avanzare al Governo e le forme di protesta in occasione della discussione parlamentare.

Le richieste e le proposte dei ricercatori precari – Lo scorso 8 ottobre a Bologna ha avuto luogo l’assemblea nazionale dei precari della ricerca e della docenza delle università italiane, nel corso della quale si è deciso di dar vita al “Coordinamento dei Precari della ricerca e della docenza – Università” (CPU) ed è stato stilato un documento che raccoglie e sintetizza le varie proposte messe in campo. Ne riportiamo i punti essenziali. I ricercatori del CPU vogliono innanzitutto far sapere che, pur svolgendo da anni attività di ricerca e insegnamento sottopagate e senza diritti che contribuiscono in modo determinante al funzionamento degli atenei, nelle proposte di legge e nelle politiche di ateneo non vi è per loro alcun riconoscimento ufficiale. Sostenendo che «l’università debba riformarsi democraticamente e dal basso, per offrire alla società italiana didattica di qualità, ricerca talentuosa ed un ruolo di costante e autonomo osservatorio critico», volendo «un’università che non crei fratture sociali o territoriali tra studenti e lavoratori, che non sfrutti il lavoro con contratti umilianti e privi di tutele, che non offra alle nuove generazioni come scelta unica il precariato a vita», i ricercatori del CPU constatano come, invece, le politiche del Governo, in particolare la cosiddetta “riforma” dell’università, vadano in senso completamente opposto. Infatti, se il DDL Gelmini, verrà approvato dal Parlamento, si presenterà una situazione di questo tipo: «intere generazioni di precari universitari vengono semplicemente cancellate dalla prevista abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato e la sua sostituzione con contratti a tempo privi di garanzie, ben lontani dalla propagandata tenure track; decine di migliaia di ricercatori precari sono a rischio di non poter proseguire i propri rapporti di lavoro a causa degli inaccettabili limiti temporali e anagrafici per assegnisti e ricercatori TD e dei tagli (1 miliardo e 350 milioni di euro) che stanno devastando l’università italiana; già nei mesi passati svariate migliaia di collaboratori, co.co.co. e docenti a contratto sono stati epurati per mancanza di fondi e lasciati privi di ammortizzatori sociali; attraverso l’istituzione del rettore-padrone e l’introduzione dei privati nei CdA vengono indebolite le strutture democratiche d’ateneo; si concede al Ministero dell’Economia una delega in bianco per la valutazione e il finanziamento degli atenei; si trasforma il diritto allo studio in indebitamento preventivo degli studenti, aggravando le disuguaglianze sociali e territoriali. Non è un caso che il DdL Gelmini sia sostenuto dalla CRUI, associazione privata che riunisce le componenti accademiche maggiormente responsabili delle tante distorsioni dell'università attuale». Pertanto i ricercatori del CPU chiedono che la riforma dell’università comprenda “inscindibilmente” 5 punti: 1) un contratto unico pre-ruolo di ricerca e didattica, di durata almeno biennale e senza limiti di rinnovo, in sostituzione dell’attuale giungla di contratti precari; 2) l'introduzione di un ruolo unico della docenza articolato in 3 livelli; 3) il rilancio del reclutamento, attraverso concorsi, per nuove posizioni di ricerca e docenza a tempo indeterminato; 4) l'adeguamento dell'età pensionabile dei docenti universitari allo standard europeo di 65 anni anche al fine di recuperare risorse esclusivamente per il reclutamento; 5) l’introduzione di un sistema di welfare e tutele sociali per tutti i precari. Inoltre chiedono con urgenza l'abolizione dei limiti temporali e anagrafici di accesso e di rinnovo per i contratti precari universitari; lo sblocco del turnover e il recupero delle posizioni già perse a causa del blocco; la cancellazione delle tasse per i dottorandi senza borsa e lo stanziamento di maggiori risorse per le borse di dottorato; che le università smettano di versare le quote associative alla CRUI, corrispondenti ad oltre 1,5 milioni di euro annui provenienti dai propri bilanci, in quanto la “associazione CRUI” ha cessato definitivamente di rappresentare gli interessi dell'università pubblica (le somme recuperate dovrebbero essere utilizzate per il rifinanziamento dei servizi d’ateneo tagliati a causa delle difficoltà economiche degli ultimi); a tutti gli organi di governo degli atenei di pronunciarsi contro il DdL Gelmini e contro il sostegno della CRUI a questo provvedimento; a tutti i rettori e presidi di non bandire contratti esterni per sostituire i ricercatori strutturati indisponibili. Quanto alla protesta, infine, i ricercatori si sono proposti di rifiutare e condannare ogni forma di lavoro gratuito o di retribuzione simbolica e di sensibilizzare i colleghi precari verso questa importante posizione di principio ed efficace forma di protesta; di costruire iniziative locali contro il DdL Gelmini, per rivendicare il diritto ad essere rappresentati negli atenei e per sostenere piattaforme rivendicative mirate a migliorare la loro condizione di lavoro e di vita; di coordinarsi con i precari della scuola per proporre e realizzare insieme una giornata di mobilitazione nazionale contro i tagli all'istruzione e contro il progetto governativo di smantellamento dell'istruzione pubblica.

La discussione parlamentare – Arriva il fatidico 14 ottobre, data di inizio della discussione parlamentare sul DdL 1905. Fuori il clima è particolarmente caldo per i numerosi sit-in di ricercatori precari e di studenti, e all’interno di Montecitorio, per l’insofferenza sempre più crescente del gruppo dei “finiani” di Futuro e Libertà nei confronti del Governo. Ma ci pensa Giulio Tremonti a togliere, per un momento, le castagne dal fuoco: infatti il ministro dell’Economia proprio in quei giorni dichiara che non vi è la copertura finanziaria sufficiente per il disegno di riforma dell’università. Tutto slitta, dunque, a dicembre. Nel frattempo i ricercatori sono ritornati in cattedra e i corsi sono partiti regolarmente, pur restando aperti tutti i problemi: restano i tagli della legge 133/2008, restano i tagli e il blocco del turn over sanciti dalla scorsa finanziaria. Come se ciò non bastasse, si aggiunge un nuovo dato: 8 studenti italiani su 10 aventi diritto alla borsa di studio non potranno usufruirne, poichè il finanziamento statale è passato dai 246 milioni dello scorso anno a 25,7 milioni, quasi il 90% dei fondi in meno.
Nei primi giorni di dicembre, il DdL termina la discussione parlamentare alla Camera e ottiene l’approvazione per passare al Senato. Operazione tutt’altro che semplice, a causa della grave crisi interna alla maggioranza, delle scelte alterne del gruppo di Fli e, soprattutto, per via della enorme mobilitazione dei ricercatori universitari e di tutto il movimento studentesco. Scuole e università occupate, monumenti simbolo del nostro patrimonio artistico presi d’assalto, studenti e ricercatori sui tetti, assemblee, lezioni in piazza, manifestazioni, blocco delle stazioni e delle autostrade, cariche della polizia sugli studenti: questi gli eventi dei primissimi giorni di dicembre. Da tanto tempo non si assisteva a mobilitazioni così forti e corali. Se i ricercatori lo scorso inverno, quando iniziò a circolare la prima bozza del DdL sull’università, temevano che la loro protesta e le loro ragioni non avrebbero fatto presa sull’opinione pubblica, oggi possono dire di aver scampato quel pericolo e di essere riusciti nella loro opera di sensibilizzazione e informazione.
Incassata la fiducia da parte del governo lo scorso 14 dicembre, l’iter parlamentare del DdL è proseguito al Senato, dove il 23 dicembre è stato definitivamente approvato. (La bozza provvisoria della riforma è consultabile sul sito http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00518474.pdf).
Le ripercussioni deleterie di questa legge sul sistema universitario sono state già discusse all’interno di questo blog nei mesi scorsi con docenti, ricercatori e studenti [http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/06/la-protesta-dei-ricercatori.html http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/10/ancora-sul-ddl-gelmini-colloquio-con.html http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/10/gelmini-e-la-riforma-delluniversita.html], senza dimenticare i gravi tagli economici dovuti alla L. 133/08 e alla manovra finanziaria. Certamente le politiche di definanziamento dell’istruzione e della ricerca perseguite nell’ultimo decennio, in maniera più acuta negli ultimi 2-3 anni, hanno avuto un effetto devastante su tutto il sistema universitario pubblico. Bisogna ammettere, però, – e questa riflessione non può partire dalla politica, ma necessariamente dall’interno del mondo universitario – che il problema principale dell’università italiana, assieme a quello del disinvestimento economico da parte dello Stato, è la didattica. Per il momento lasciamo aperta questa questione fondamentale, che meriterebbe uno spazio più ampio e necessiterebbe di altri contributi, ma vogliamo comunque riportare le riflessioni, che ci è capitato quasi casualmente di leggere nei giorni scorsi, fatte su questi due punti (finanziamenti statali all’istruzione e università e qualità della didattica universitaria) da Marc Bloch e Antonio Gramsci. Mutatis mutandis, crediamo che possano offrire validi spunti di riflessione.

«Ogni sventura nazionale richiede innanzitutto un esame di coscienza; poi (giacché l’esame di coscienza non è che uno sterile compiacersi quando non induca ad uno sforzo verso il meglio) la stesura di un piano di rinnovamento. […] Tra tante e indispensabili ricostruzioni, quella del nostro sistema pedagogico non sarà la meno urgente. Si tratti di strategia, di pratica amministrativa o semplicemente di resistenza morale, il nostro crollo è stato innanzitutto, nei dirigenti di questo paese e (perché temere di confessarlo?) in tutta una parte del suo popolo, una disfatta dell’intelligenza come del carattere. Tra le cause profonde della sconfitta, in altre parole, un ruolo di primo piano spetta alle insufficienze della formazione offerta ai giovani dalla società. Una timida riforma mai potrebbe correggere questi difetti. Non si costruisce un nuovo sistema educativo rattoppando vecchie routine. È necessaria una rivoluzione. […] Non illudiamoci, il compito sarà arduo. Non potremo evitare le lacerazioni. Non sarà facile convincere gli insegnanti che i metodi che essi per lungo tempo e coscienziosamente hanno usato non erano forse i migliori, gli uomini maturi che i loro figli trarranno vantaggio da un’educazione diversa da quella che essi stessi hanno ricevuto, […]. Qui, né solo qui, l’avvenire apparterrà agli audaci, ne siamo certi. Per tutti gli uomini che si occupano di insegnamento, non potrebbe esservi pericolo peggiore di una molle compiacenza nei confronti delle istituzioni di cui essi hanno fatto, con il tempo, una comoda dimora. Non pretendiamo certo, in poche pagine, di discutere il programma di questa necessaria rivoluzione. […] Vi è però una condizione preliminare, talmente irrinunciabile che nulla di serio potrà essere fatto quand’essa non sia soddisfatta. Per l’educazione dei giovani, come per il costante sviluppo della cultura tra tutti i cittadini, è importante che la Francia di domani accetti di spendere cifre incomparabilmente superiori a quelle che sino ad ora si è rassegnata a stanziare. […] Risorse, dunque, per i nostri progetti di ricerca. Per le nostre università, i licei e le scuole, […]. E, diciamolo senza falsi pudori, risorse ci serviranno anche per assicurare agli insegnanti di tutti i gradi un’esistenza certo non lussuosa (non è una Francia di lusso che sogniamo) ma sufficientemente libera, oltre che dalle piccole angustie materiali, dalla necessità delle occupazioni accessorie, affinché questi uomini possano dedicarsi ai loro compiti di insegnamento o di ricerca scientifica con animo sgombro, con uno spirito che non cesserà di rinnovarsi alle vive fonti dell’arte o della scienza. Ma questi indispensabili sacrifici sarebbero vani se non si rivolgessero ad un insegnamento completamente rinnovato.
Una parola, una parola terribile, riassume una delle tare più perniciose del nostro attuale sistema: bachotage . Un veleno penetrato in minor misura nell’insegnamento primario, che pure non credo ne sia del tutto esente. L’insegnamento secondario, delle università e delle grandes Écoles, ne è ormai infetto. Bachotage. Ovvero: ossessione dell’esame e della valutazione. Peggio ancora: ciò che dovrebbe essere un semplice reagente, destinato a verificare il valore dell’educazione, diventa il fine cui si orienta sin dall’inizio l’intero processo educativo. Non si invitano più i ragazzi o gli studenti ad acquisire le conoscenze di cui l’esame, bene o male, permetterà di apprezzare la solidità. Li si esorta invece a preparare l’esame. Similmente, un cane sapiente non è un cane che sa molte cose ma che è stato addestrato a dare, tramite qualche esercizio preventivamente scelto, solo l’illusione del sapere. […] Non penso sia necessario insistere oltre sugli inconvenevoli intellettuali di una simile mania degli esami. Ma, quanto alle conseguenze morali, le conosciamo da sempre: il timore di qualsiasi iniziativa, negli insegnanti come negli allievi; la negazione di ogni libera curiosità; il culto del successo anziché il piacere della conoscenza; una sorta di perenne tremito, e di astio, laddove invece dovrebbe regnare la libera gioia di apprendere; la fede nella fortuna […]; infine, male infinitamente più grave, la fede nella frode?».
Marc Bloch, Sulla riforma dell’insegnamento in La strana disfatta. Testimonianza del 1940, introduzione di S. Lanaro, Einaudi, Torino 1995, 201-213.

«Le università italiane. Perché non esercitano nel paese quell'influsso di regolatrici della vita culturale che esercitano in altri paesi? Uno dei motivi deve ricercarsi in ciò che nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo una parte: lo studente si affida alle dispense, all'opera che il docente stesso ha scritto sull'argomento o alla bibliografia che ha indicato. Un maggior contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo più, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per la fortuna delle varie discipline. Si forma, per esempio, per cause religiose, politiche, di amicizia famigliare. Uno studente diventa assiduo di un professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli consiglia libri da leggere e ricerche da tentare. Ogni insegnante tende a formare una sua "scuola", ha suoi determinati punti di vista (chiamati "teorie") su determinate parti della sua scienza, che vorrebbe veder sostenuti da "suoi seguaci o discepoli". Ogni professore vuole che dalla sua università, in concorrenza con le altre, escano giovani "distinti" che portino contributi "seri" alla sua scienza. Perciò nella stessa facoltà c'è concorrenza tra professori di materie affini per contendersi certi giovani che si siano già distinti con una recensione o un articoletto o in discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il professore allora guida veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo consiglia nello svolgimento, gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni assidue accelera la sua formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi nelle riviste specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo accaparra definitivamente. Questo costume, salvo casi specifici di camorra, è benefico, perché integra la funzione delle università. Dovrebbe, da fatto personale, da iniziativa personale, diventare funzione organica: non so fino a che punto, ma mi pare che i seminari di tipo tedesco, rappresentino questa funzione o cerchino di svolgerla. Intorno a certi professori c'è ressa di procaccianti, che sperano raggiungere più facilmente una cattedra universitaria. Molti giovani invece, che vengono dai licei di provincia specialmente, sono spaesati e nell'ambiente sociale universitario e nell'ambiente di studio. I primi sei mesi del corso servono per orientarsi sul carattere specifico degli studi universitari e la timidezza nei rapporti personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei seminari ciò non si verificherebbe o almeno non nella stessa misura. In ogni modo, questa struttura generale della vita universitaria non crea, già all'università, alcuna gerarchia intellettuale permanente tra professori e massa di studenti; dopo l'università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni struttura culturale che si impernii sull'università. Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce-Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l'altro essi lottavano anche contro l'insufficienza della vita universitaria e la mediocrità scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali.
Quistioni scolastiche. Confrontare l'articolo Il facile e il difficile di Metron nel "Corriere della Sera" del 7 gennaio 1932. Metron fa due osservazioni interessanti (riferendosi ai corsi d'ingegneria e agli esami di Stato per gli ingegneri): 1) che durante il corso l'insegnante parla per cento e lo studente assorbe per uno o due; 2) che negli esami di Stato i candidati sanno rispondere alle quistioni "difficili" e falliscono nelle quistioni "facili". Metron non analizza però esattamente le ragioni di questi due problemi e non indica nessun rimedio "tendenziale". Mi pare che le due deficienze siano legate al sistema scolastico delle lezioni-conferenze senza "seminario" e al carattere tradizionale degli esami che ha creato una psicologia tradizionale degli esami. Appunti e dispense. Gli appunti e le dispense si formano specialmente sulle quistioni "difficili": nell'insegnamento stesso si insiste sul "difficile", nell'ipotesi di un'attività indipendente dello studente per le "cose facili". Quanto più si avvicinano gli esami tanto più si riassume la materia del corso, fino alla vigilia, quando si "ripassano" solo appunto le quistioni più difficili: lo studente è come ipnotizzato dal difficile, tutte le sue facoltà mnemoniche e la sua sensibilità intellettuale si concentrano sulle quistioni difficili ecc. Per l'assorbimento minimo: il sistema delle lezioni-conferenze porta l'insegnante a non ripetersi o a ripetersi il meno possibile: le quistioni sono così presentate solo entro un quadro determinato, ciò che le rende unilaterali per lo studente. Lo studente assorbe uno o due del cento detto dall'insegnante: ma se il cento è formato di cento unilateralità diverse, l'assorbimento non può essere che molto basso. Un corso universitario è concepito come un libro sull'argomento. Ma si può diventare colti con la lettura di un solo libro? Si tratta quindi della quistione del metodo nell'insegnamento universitario: all'università si deve studiare o studiare per saper studiare? Si devono studiare "fatti" o il metodo per studiare i "fatti"? La pratica del "seminario" dovrebbe appunto integrare e vivificare l'insegnamento orale».
Antonio Gramsci, Note sparse. Problemi scolastici e organizzazione della cultura in Quaderni del carcere 3: Quaderni 12-29, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1977.

Infine vogliamo aggiungere che la protesta, forte e decisa, contro questa proposta di riforma ha finalmente messo insieme le diverse anime dell’università che in genere tendono a non parlarsi o a parlarsi troppo poco, cioè studenti, ricercatori e docenti. Quale occasione migliore per iniziare a ripensare la didattica universitaria?

Links agli articoli precedenti di E. De Luca e B. M. Trentin
http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/06/la-protesta-dei-ricercatori.html

http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/10/ancora-sul-ddl-gelmini-colloquio-con.html

http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/10/gelmini-e-la-riforma-delluniversita.html

La lettera del Presidente della Repubblica che ha accompagnato la promulgazione della Legge “Gelmini” sull’ Università.

"Promulgo la legge, ai sensi dell'art. 87 della Costituzione, non avendo ravvisato nel testo motivi evidenti e gravi per chiedere una nuova deliberazione alle Camere, correttiva della legge approvata a conclusione di un lungo e faticoso iter parlamentare. L'attuazione della legge è del resto demandata a un elevato numero di provvedimenti, a mezzo di delega legislativa, di regolamenti governativi e di decreti ministeriali; quel che sta per avviarsi è dunque un processo di riforma, nel corso del quale saranno concretamente definiti gli indirizzi indicati nel testo legislativo e potranno essere anche affrontate talune criticità, riscontrabili in particolare negli articoli 4, 23 e 26.
Per quel che riguarda l'articolo 6, concernente il titolo di professore aggregato - pur non lasciando la norma, da un punto di vista sostanziale, spazio a dubbi interpretativi della reale volontà del legislatore - si attende che ai fini di un auspicabile migliore coordinamento formale, il governo adempia senza indugio all'impegno assunto dal Ministro Gelmini nella seduta del 21 dicembre in Senato, eventualmente attraverso la soppressione del comma 5 dell'articolo. Per quanto concerne l'art. 4 relativo alla concessione di borse di studio agli studenti, appare non pienamente coerente con il criterio del merito nella parte in cui prevede una riserva basata anche sul criterio dell'appartenenza territoriale.
Inoltre l'art. 23, nel disciplinare i contratti per attività di insegnamento, appare di dubbia ragionevolezza nella parte in cui aggiunge una limitazione oggettiva riferita al reddito ai requisiti soggettivi di carattere scientifico e professionale. Infine è opportuno che l'art. 26, nel prevedere l'interpretazione autentica dell'art. 1, comma 1, del decreto legge n. 2 del 2004 sia formulato in termini non equivoci e corrispondenti al consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte Costituzionale.Al di là del possibile superamento - nel corso del processo di attuazione della legge - delle criticità relative agli articoli menzionati, resta importante l'iniziativa che spetta al governo in esecuzione degli ordini del giorno Valditara e altri G 28.100, Rusconi ed altri G24.301, accolti nella seduta del 21 dicembre in Senato, contenenti precise indicazioni anche integrative - sul piano dei contenuti e delle risorse - delle scelte compiute con la legge successivamente approvata dall'Assemblea. Auspico infine che su tutti gli impegni assunti con l'accoglimento degli ordini del giorno e sugli sviluppi della complessa fase attuativa del provvedimento, il governo ricerchi un costruttivo confronto con tutte le parti interessate".

Giorgio Napolitano

Legge Gelmini. La Relazione di Minoranza

Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario

Relazione di Luigi Nicolais

Signor Presidente,
Signori rappresentanti del Governo,
Onorevoli Colleghi,
Il 5 Giugno1224 con la “generalis lictera”, nel fondare l’Università degli Studi di Napoli, fu emanato solennemente l’editto che affermava: “Federico II di Svevia per grazia del Signore Imperatore dei Romani e Augusto Re di Gerusalemme e di Sicilia, agli arcivescovi, vescovi e altri prelati della Chiesa, ai margravi, baroni, giudici, ciambellani..... Noi ordiniamo che a Napoli, la più amabile di tutte le città, saranno insegnate tutte le arti professionali e sarà stabilita una sede di studi così che tutti quelli che sono affamati di sapere scopriranno nel mio regno i mezzi per soddisfare le loro necessità e non saranno obbligati ad andare all'estero per amore degli studi ...."

Se l’Università assumeva tale centralità per un regnante circa 800 anni fa, ancor maggiore consapevolezza dovremmo attenderci oggi da una moderna classe politica.

In una società della conoscenza in cui la competizione ha una dimensione globale bisogna puntare principalmente sulle Università come elemento di sviluppo del Paese. E’ necessario riuscire a formare giovani capaci e competenti e sviluppare conoscenza e ricerca che, da un lato possano essere trasferite alle imprese (che, peraltro, solo attraverso una smaterializzazione del loro prodotto riescono a mantenere una posizione competitiva in uno scenario globale) e, dall’altro, creare una classe dirigente all’altezza della complessità delle sfide che la società ci pone.
La nostra università ha saputo fino ad oggi, anche con molta difficoltà, mantenere una produzione scientifica che posiziona ancora il nostro Paese tra le prime nazioni industrializzate, nonostante il basso numero di ricercatori e le scarse risorse finanziarie.
Quante straordinarie risorse intellettuali frutto di anni di sacrifici nelle aule e nei laboratori delle nostre Facoltà hanno trovato la loro collocazione in grandi multinazionali all’estero? Quante migliaia di ricercatori italiani nel mondo spesso costituiscono comunità scientifiche, universalmente riconosciute per la loro qualità e per la loro capacità? Si pensi che a Boston presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology i tanti ricercatori con passaporto italiano, impegnati tra centri di ricerca e multinazionali che con essi interagiscono, hanno sentito la necessità di riunirsi in una comunità chiamata MIT-ITALY, per condividere lo straordinario bagaglio di conoscenza acquisita in patria e valorizzata in uno dei principali centri di eccellenza del mondo.
Tali dati richiederebbero una maggiore umiltà nell’affrontare certe critiche indiscriminate al nostro mondo universitario, alla sua classe docente, ai suoi ricercatori e ai suoi studenti.
Soprattutto dovrebbero farci agire con maggiore cautela nel proporre tagli indiscriminati che finiscono con accelerare le ondate migratorie delle nostre migliori intelligenze a favore delle economie dei nostri competitor su scala globale.

Sicuramente la nostra università, come molte altre istituzioni, ha bisogno di una riforma che tenga conto dei grandi cambiamenti che negli ultimi anni sono avvenuti.


In un sistema che cambia a grande velocità non possiamo consentirci di lasciare immutato il nostro impianto di alta formazione. Ed è per questo che come Partito Democratico abbiamo sostenuto, sin dalle prime battute dell’esame dell’iter legislativo del DDL di riforma dell’Università, la necessità di pretendere un cambio di passo dal sistema universitario. Attraverso un maggiore impegno del corpo docente delle università, non solo nello sviluppo di conoscenza e nell’attività di formazione, ma anche ponendo attenzione alla possibilità di trasferire al territorio i risultati della ricerca prodotta.

Purtroppo, dobbiamo constatare che questo Governo ha seguito un percorso che non è stato all’altezza delle sfide che abbiamo innanzi a noi. Il Governo ha affrontato il problema della riforma dell’Università puntando principalmente al risparmio della spesa.
Le stesse risorse contenute nella manovra finanziaria appena approvata, se da un lato dimostrano che era necessario correggere il tiro rispetto ai molteplici tagli già operati per il settore, dall’altro risultano essere totalmente insufficienti per assegnare all’intero comparto dei saperi quel ruolo chiave necessario per il rilancio del Paese.

Per poter far in modo che l’opinione pubblica non maturasse un’accesa ostilità nei confronti di questi tanto pericolosi tagli, è stato ancora più grave la campagna denigratoria messa in atto nei mesi scorsi dai media e da settori del mondo politico enfatizzando alcuni problemi reali, peraltro presenti anche in altri settori della vita pubblica e professionale, ma che strumentalmente nell’università si è voluto far passare quale regola generale del sistema.

Il danno più grave prodotto da questa campagna è stato quello di aver tolto ai giovani studenti la possibilità di guardare al proprio docente come ad un modello di riferimento.
Anziché tentare di rafforzare la credibilità di un’istituzione, quella accademica, che quotidianamente si cimenta con la difficoltà di dare coscienza alle nuove generazioni del proprio ruolo all’interno della società, si è voluto rappresentare agli occhi del cittadino il facile luogo comune dell’Università fonte di sprechi e rendite di posizione.

Purtroppo, il risultato di questa scelta politica non è stato quello di agevolare la riduzione degli investimenti in questo settore, ma quello di avvelenare il clima ed esasperare ancora di più chi ha scelto di dedicare la propria vita alla Ricerca e si aspettava dai propri governanti più lungimiranza e maggiore coraggio negli investimenti.

Oggi ci troviamo ad esaminare questo Disegno di Legge, nella sua stesura successiva alle modifiche apportate dalle competenti commissioni parlamentari, nella consapevolezza che il suo corpo normativo presenta delle contraddizioni di fondo che non sono state risolte.
Principi quali l’autonomia, la libera formazione e la libera ricerca enunciati con molta forza all’articolo 1 del provvedimento in esame, e sicuramente condivisibili, vengono però totalmente contraddetti dalle prescrizioni indicate negli articoli successivi, che rappresentano il corpus vivo del disegno di legge.
Si pensi a come da un lato si stabilisce con un dettaglio che appare stringente e invasivo la minuziosa composizione degli organi di governo e, dall’altro, si introduce il concetto dell’Accordo di Programma con il Ministero per sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, permettendo di disattendere alle norme prescritte a seguito di un accordo tra parti, mortificando la vera autonomia e centralizzando in maniera burocratica i luoghi decisionali.
Secondo la stessa impostazione anche i piani triennali di sviluppo, che nelle enunciazioni governative dovevano rappresentare un alto momento di politica universitaria, si riducono ad un’attività burocratica che deve essere approvata e condivisa dal Ministero per l’Università, l’Istruzione e la Ricerca Scientifica (MIUR).
L’intero impianto della riforma universitaria che ci viene proposta punta a farci ritornare ad un sistema centralista e, con l’approvazione dell’emendamento all’art. 25, si introduce un evidente tutoraggio del MIUR da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Nel disegnare l’architrave normativo della nuova università, ci saremmo aspettati una maggiore attenzione nel prevedere delle precise norme transitorie. Purtroppo, dobbiamo constatare che anche queste fondamentali disposizioni sono del tutto insufficienti, non prevedendo cosa succederà a circa 25.000 ricercatori cui, peraltro, è stato anche già annullato lo scatto stipendiale, e a decine di migliaia di precari che contribuiscono in modo essenziale a sostenere tanto la ricerca, quanto la didattica degli Atenei anche superando quanto previsto dalla legge 382 attualmente vigente.

Inoltre Il disegno di legge che stiamo esaminando non vara una riforma a costo zero, ma una riforma che opera all’interno di tagli che hanno già messo in ginocchio le università.
Il principio economico che la ispira non trova pari nel quadro comunitario. Altri paesi d’Europa, che condividono con noi comuni esigenze di bilancio e preoccupazioni per l’instabilità finanziaria, hanno investito in Ricerca e Innovazione.
Francia e Germania hanno accompagnato le loro misure di programmazione economica e finanziaria con massicci investimenti in conoscenza, consapevoli che ogni risorsa allocata per la filiera della conoscenza può divenire, in un sistema che funziona, moltiplicatore di sviluppo e catalizzatore di ripresa economica.
L’Italia, purtroppo anche con questo disegno di legge che ci accingiamo a votare, si attesta sempre di più come fanalino di coda delle classifiche tra i paesi più sviluppati per l’investimento in ricerca e alta formazione. Il taglio di 1 miliardo e 300 milioni di euro operato nel finanziamento delle università in questi ultimi 3 anni rappresenta un dato gravissimo del quale paghiamo le conseguenze quotidianamente, ipotecando effetti nefasti per prossimi anni se non invertiremo la rotta. Gli 800 milioni di Euro appena assegnati con la finanziaria rappresentano solo una parte del Fondo di Finanziamento Ordinario già decurtato e quindi sono una misura totalmente insufficiente per ogni eventuale nuova assunzione e non possono essere propagandati quali investimenti aggiuntivi.

Con questo non vogliamo difendere acriticamente lo status quo. Il Partito Democratico è nato per proporsi come forza politica per il cambiamento necessario al Paese. Di conseguenza siamo consapevoli dell’urgenza non tanto di singole misure correttive, quanto di un provvedimento che metta a sistema l’intera cornice legislativa che disciplina il mondo dell’università in ogni suo aspetto.
Ma crediamo in un’altra riforma dell’Università italiana. Le riforme coraggiose, quelle che rispondono all’interesse generale del paese non possono subire condizionamenti solo dalla necessità di ridurre i costi.

Abbiamo bisogno di un testo unico snello di principi e di regole chiare a cui gli atenei devono attenersi (nel reclutamento, nella formazione, nella valutazione), operando secondo il paradigma della massima autonomia e della massima responsabilità.

L'autonomia è l'elemento fondativo caratterizzante il sistema universitario, ma per perseguirla abbiamo bisogno di risorse, programmi e progettualità strategiche che rendano il sistema universitario coeso e funzionale alle esigenze di un moderno sistema Paese. Nel DDL assistiamo ad un rinnovato accentramento amministrativo e alla minuziosa elencazione di obblighi a cui le università devono conformarsi. Necessitiamo, invece, di una rivisitazione e una riorganizzazione degli atenei in un' ottica politica più generale e complessa rispetto a quella fino ad oggi adottata. Le università debbono essere messe in condizioni di poter esercitare una funzione più incisiva nella società, e per fare questo devono agire con la consapevolezza che occorre aprire una nuova fase progettuale che coinvolga e integri più soggetti e istituzioni. Ecco perché dobbiamo partire dall’autonomia. Soprattutto adesso che essa deve essere declinata insieme a federalismo, sussidiarietà, valutazione e governance multilivello.

Ma l’autonomia deve essere cardine di un sistema fatto di validi contrappesi. Solo la valutazione da parte di enti terzi fungerà da argine contro le spinte degenerative di una cattiva concezione dell’autonomia riconosciuta. La valutazione delle attività come strumento di controllo dei risultati e di trasparenza pubblica è, e deve essere, un punto fermo su cui costruire la forza del sistema che immaginiamo per gli Atenei.
Siamo consapevoli, tuttavia, che per tramutare concretamente la valutazione in una prassi che faccia perno sulla massima responsabilizzazione degli attori universitari dobbiamo avere il coraggio di parlare non solo di valutazione ex ante, ma principalmente di valutazione ex post. Solo così saremo in condizione di premiare i comportamenti virtuosi delle università, dei Dipartimenti e delle diverse strutture accademiche, esaltando una concezione di merito e isolando storture e sperperi. La valutazione delle attività come strumento di indirizzo strategico, di controllo dei risultati e di trasparenza pubblica è, e deve essere, un punto fermo su cui costruire la forza del sistema.
Già nella passata legislatura è stata creata l’ANVUR, che nelle intenzioni di tutti dovrebbe rappresentare l’organo terzo capace di effettuare valutazione oggettiva sia della produzione scientifica che delle attività didattiche, ma anche del funzionamento delle università. Perché, a distanza di quasi 3 anni, l’ANVUR non è ancora operativa ?
In questo Disegno di Legge si parla frequentemente di valutazione senza avere ancora con chiarezza definito le variabili da misurare e le metodologie da utilizzare !
Anche in questo caso, come in tanti altri, il DDL Gelmini rimanda ad una serie di decreti attuativi e di decreti delegati rendendo questa riforma molto vaga e priva di immediata efficacia.

Anche il reclutamento, che rappresenta un elemento essenziale per il futuro delle università, è fortemente condizionato da tutte le scelte di carattere economico effettuate da questo Governo. Anche alla luce del previsto forte esodo dei docenti nei prossimi anni sarebbe stato necessario un significativo ingresso di giovani nel sistema universitario per poter evitare all’università una carenza di capacità didattica e di ricerca.

Desta particolare preoccupazione il modo in cui è affrontato dal testo del disegno di legge il tema della governance del sistema universitario. Siamo scettici rispetto all’idea di un modello rigido unico che passi per norme di dettaglio omogenee per tutte le università. Gli Atenei italiani sono molto diversi tra loro per dimensioni, caratteristiche e ambiti culturali e un “unico modello ” non sembra adeguato a rispondere alle diverse esigenze.
Si costruisce un nuovo modello di governo delle università solo individuando un obiettivo strategico. Questo dovrebbe essere ispirato al principio dell’ accountability, inteso come un solenne e sistematico impegno a render conto dei propri risultati con modalità trasparenti. Ad oggi nell’università una concezione fuorviante e strumentalizzata del pur prezioso concetto di “garanzie democratiche” a tutto campo, ha condotto alla formazione di strutture di governo pletoriche, a procedure decisionali lente e pesantemente gerarchiche, all’impropria commistione tra forme di rappresentanza e compiti di governo. Un obiettivo coraggioso è senza dubbio rappresentato dalla semplificazione stessa degli strumenti di governance e di organizzazione delle università. Abbiamo bisogno di giungere ad una riduzione del numero di corsi di laurea e di dipartimenti attraverso un accorpamento e razionalizzazione degli insegnamenti, garantendo agli stessi studenti la possibilità di una più ampia possibilità di articolazione dei propri percorsi formativi.

Al consiglio di amministrazione va assegnato un deciso compito di programmazione e di governo e il contributo di competenze esterne è senz’altro occasione di rafforzamento per l’Ateneo, a condizione che siano individuate funzioni chiare e specifiche per tali componenti.

Lo stesso Senato Accademico appare privo di una sua missione istituzionale definita e, stante il suo ruolo primario finora assolto, risulta depotenziato. Crediamo che una sua rinnovata centralità risieda in un suo forte ruolo di massima garanzia, di rigoroso controllo e di programmazione e promozione delle attività scientifiche e didattiche.

Le Università esistono in quanto esistono gli studenti che le frequentano. In questo DDL è mancata la centralità dello studente intorno al quale costruire un sistema che possa assolvere ai suoi compiti istituzionali.
Infatti, sarebbe stato necessaria, ad oltre dieci anni dalla sua introduzione, un’analisi del sistema di formazione basato sul 3+2 per poter essere in grado di effettuare i necessari aggiornamenti.
Altrettanto preoccupante è il capitolo Diritto allo Studio. Nel nostro paese appena l’8% degli studenti riceve una borsa di studio. Circa la metà degli studenti idonei, perché meritevoli ma privi di mezzi economici sufficienti, non è assegnatario del contributo economico cui ha diritto. Nel mezzogiorno gli assegnatari sono, addirittura, una netta minoranza. Abbiamo il minor numero di alloggi residenziali d’Europa. Più dell’80% degli studenti si iscrive alle facoltà della propria regione di residenza. Tutto ciò mentre il diritto allo studio è solennemente sancito come principio inderogabile dall’art. 34 della nostra Costituzione. Il disegno di legge introduce genericamente un Fondo nazionale per il merito senza dare contenuto cogente a queste disposizioni, non individuando dei criteri chiave per la loro attuazione ed eludendo scandalosamente il tema delle risorse necessarie a colmare le carenze che gli studenti hanno denunciato con imponenti manifestazioni appena qualche giorno fa, in ogni città universitaria.
Ancora una volta assistiamo a un principio genericamente enunciato che non si concretizza in misure tangibili e che non trova soluzione ai problemi già esistenti, soprattutto per una totale mancanza di fondi di copertura.


Ci saremmo aspettati una legge coraggiosa di riforma dell’Università che affrontasse tutti i nodi che abbiamo qui evidenziato che sono a gran voce rivendicati da tutti i suoi attori: docenti, studenti, ricercatori, personale amministrativo.

Ci troviamo, invece, ad analizzare un testo che continua ad essere viziato da misure di finanza pubblica che ne hanno svuotato qualsiasi prospettiva di cambiamento reale dell’esistente.

Pertanto non possiamo che ritenerci insoddisfatti dal contenuto di questo Disegno di Legge: esso non risponde alle esigenze di un Paese che vuole essere competitivo e che richiede un sistema di alta formazione responsabile e competente.

CAMERA DEI DEPUTATI
XVI LEGISLATURA
Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 399 di lunedì 22 novembre 2010