Studenti democratici
Negli ultimi anni nel nostro Paese si è affrontato un dibattito (quando c’è stato) per compartimenti stagni sui temi della scuola, dell’università e della ricerca.
Questa miopia nell’affrontare l’analisi del contesto sociale ed economico e la conseguente incapacità di fornire soluzioni efficaci ed efficienti, ha progressivamente ed inesorabilmente condotto l’Italia verso una perdita di competitività sia nel settore dell’istruzione e della ricerca sia in quello economico. Infatti, non aver compreso per tempo la necessità di costruire un percorso di riforma del sistema dell’istruzione che tenesse conto di tutti i livelli e dell’integrazione dell’offerta formativa, non averne articolato le basi per mantenerne alti gli standard d’accesso all’università (e a maggior ragione d’uscita) e al mondo del lavoro, non aver pensato la scuola, l’università, il mercato del lavoro e il sistema economico e produttivo come un “continuum”, oggi produce effetti recessivi.
E’ in questo quadro che si inserisce la riforma Gelmini.
Gelmini, appoggiandosi su una critica della condizione degli studi universitari, punta ad una significativa riduzione dell’ università pubblica italiana a cominciare dalla progressiva diminuzione delle matricole all’interno delle facoltà.
L’argomento chiave del Ministro è la dichiarazione di voler favorire maggiori sbocchi lavorativi per i giovani, in quanto, secondo alcune statistiche, in Italia ci sarebero troppi laureati che il mercato non riesce ad integrare nel sistema economico. La verità è che. per il Governo italiano, i laureati e gli studenti sono intesi solo come “voci di spesa” e non una risorsa culturale e di innovazione del paese.
Il Governo non ha voluto analizzare realmente il motivo per cui i laureati in Italia non riescono ad essere integrati nel mercato. Leggendo più attentamente i dati che vengono pubblicati in recenti ricerche, è evidente come in verità in Italia non è affatto vero che vi sia il più alto tasso di laureati rispetto agli altri paese europei.
Se, ad esempio, confrontiamo i dati con quelli della Germania, ci rendiamo conto che la nostra nazione si trova ben al di sotto degli standard tedeschi. Coloro che concludono gli studi universitari non riescono ad essere assorbiti dal mondo del lavoro, anche perché il nostro sistema economico si basa fondamentalmente su un tessuto di piccole e medie imprese, che non richiedono particolari specializzazioni o specifiche professionalità.
Da parte degli altri paesi, e non solo europei, i laureati che provengono dalle nostre università, sono sempre stati considerati di alto livello, a dimostrazione dell’eccellenza del sistema didattico del nostro paese, che non riesce però a sfruttare tali potenzialità e tali risorse per rilanciarsi nella sfera economica internazionale.
In questi anni il Governo non si è preoccupato minimamente di migliorare e snellire in alcune sue parti il percorso formativo dei giovani che nel corso dei loro studi si imbattono continuamente in chiusure e blocchi, pagando il prezzo di ulteriori anni di permanenza all’interno delle facoltà e trovandosi in una condizione di “standby”, quando una semplificazione della burocrazia e dei metodi potrebbe facilitare e velocizzare i loro studi.
Una volta completato il percorso universitario, la vita non è altrettanto facile, in quanto l’accesso alle professioni è bloccato o comunque reso difficile dalle corporazioni rappresentate dagli ordini professionali.
Da qualche anno a questa parte il Governo non ha voluto portare avanti una politica reale per la vera risorsa di ogni paese: i giovani. Aumentando i blocchi, sia per accedere alle facoltà sia per accedere alla professione, non si è fatto altro che relegare i giovani ad un ruolo marginale nella società, senza reali possibilità di costruirsi un futuro all’altezza della loro qualificazione culturale. Le classi più giovani sono già coscienti di dover sopportare sulle loro spalle gli errori delle generazioni precedenti e di dover passare attraverso anni di precariato prima di potersi affermare in qualche modo ed in qualsiasi campo. Tutto ciò non avviene, ad esempio in Germania, dove i giovani vengono considerati come una delle principali risorse del paese proprio perché rappresentano la possibilità di innovazione, di ricerca e di competitività nei confronti degli altri stati europei ed extra-europei; vengono infatti valorizzati e assorbiti in tempi brevi nel mondo del lavoro.
In Italia invece sta accadendo tutto il contrario, diminuiscono gli accessi alle università, aumentano le tasse universitarie, diminuiscono le borse di studio e proliferano le sovvenzioni alle università private (basta pensare a quanti cartelli pubblicitari sono comparsi in questi mesi lungo le strade delle nostre città), a scapito di quelle pubbliche. Tutto ciò comporta un impoverimento del sistema culturale del nostro paese e fa scorgere, anche agli occhi meno attenti, un chiaro e progressivo progetto di smantellamento della istruzione pubblica in Italia, che non può così essere garantita a tutti e non consente alle fasce più povere delle popolazione di accedere e aspirare a studi ed attività più qualificate.
Il sistema universitario pubblico deve essere sicuramente riformato, ma non in questo modo; la riforma deve essere più complessiva e deve incidere su vari livelli, ad esempio ponendosi come obiettivo anche la riduzione delle disuguaglianze e delle differenze fra Nord e Sud d’Italia, facilmente leggibili dai dati statistici, ed insieme a massicci e mirati interventi su tutti gli altri aspetti sociali, economici e culturali, deve contribuire all’ambizione di costruire un paese unito e solidale, senza una così elevata differenziazione fra gli opposti poli geografici.
In tal senso, è auspicabile una riduzione del numero di atenei dislocati sul territorio ed una altrettanto decisa diminuzione di sedi distaccate, al fine di concentrare finanze ed intelligenze per la realizzazione di veri e propri centri culturali, in grado di attrarre eccellenti operatori didattici e di inserirsi nei circuiti internazionali della ricerca scientifica e tecnologica. In questo modo, una più elevata e riconosciuta offerta formativa, unita ad efficaci strumenti a garanzia del diritto allo studio, produrrebbe il contenimento dell’abbandono per motivi di studio delle regioni meridionali e porterebbe benefici effetti, diretti ed indiretti, sulle economie di quelle aree del paese. Si agirebbe, in questo modo, anche sulla dinamicità culturale e politica del territorio, trattenendo le individualità più giovani e preparate e sull’intero sistema produttivo, di servizi e consumi, oltre che sull’occupazione.
Per poter sostenere tutte queste innovazioni nel sistema pubblico non è utile una diminuzione orizzontale dei finanziamenti, ma anzi ci sarebbe da dire che la razionalizzazione dell’università
dovrebbe essere accompagnata da una crescita degli investimenti pubblici.
Se si considera l’Unione Europea quale benchmark si vede chiaramente che solamente la Bulgaria spende meno dell’Italia. I Paesi dell’UE spendono in media l’1,1% del PIL per l’università, mentre l’Italia solo lo 0,8%.
In secondo luogo, analizzando più a fondo la riforma odierna, la previsione di premi per gli atenei virtuosi e punizioni pecuniarie per gli atenei non virtuosi non segue alcuna logica razionale. Occorrerebbe, infatti, stabilire dei meccanismi di premio e punizione, secondo modalità diverse, per evitare di aggravare il divario già enorme tra le università del Nord e quelle del Centro Sud.
Continuando il nostro confronto con i paesi esteri, si scorge come in Italia solo il 7,7% della spesa universitaria e’ finanziato da partner privati. Nel resto d’Europa la media e’ del 12,5. Questo e’ soprattutto dovuto alla mancanza di investimento primario dello Stato in infrastrutture e ricerca. Nei paesi più sviluppati (anche negli Stati Uniti D’America) la spesa privata è ingente grazie a particolari regolamentazioni ed al deciso impegno dello Stato nel finanziamento dell’università’ e della ricerca.
Alla luce di questi squilibri pre-esistenti, l’approccio iniziale non può essere solo punitivo.
Si deve pensare a un sistema in cui le università virtuose mantengano una maggiore autonomia nella gestione della didattica e delle questioni finanziarie, mentre quelle non virtuose vengano prontamente monitorate dal Ministero. Si dovrebbe, inoltre, creare un fondo per dare vita a partnerships tra le università virtuose e quelle meno organizzate, per permettere il trasferimento di buone pratiche. Questo potrebbe essere l’inizio di una riforma partecipata.
Premiare il merito, però, potrebbe non essere sufficiente se a tali misure non si accompagna una modifica della governance delle istituzioni universitarie.
Il principio democratico della rappresentanza corporativa è quello che oggi è alla base del sistema di governo dei nostri Atenei. Ognuno prende la sua parte di finanziamenti in piena “autonomia”, senza responsabilizzazione alcuna. Dai professori alle rappresentanze studentesche.
Bisogna riformare tale sistema, per passare ad un modello di tipo anglosassone ormai sposato da moltissimi paesi europei (vedi Svezia, Danimarca o Olanda). La via anglosassone ha preferito il meccanismo della nomina a cascata a quello elettorale. Il CDA nominato dagli stakeholder nomina a sua volta il Rettore, il quale ha poteri superiori a quelli a disposizione in Italia.
La verticalizzazione dei processi decisionali e l’individuazione dei centri di responsabilità in modo preciso e trasparente, combinato ad un meccanismo di valutazione e monitoraggio degli atenei basati su criteri oggettivi, costituiscono un serio ed efficace incentivo alla responsabilizzazione del sistema.
In questo modo si possono lasciare libere le università di assumere e premiare, diventando loro stesse le datrici di lavoro dei lori docenti e ricercatori. In questo sistema di “incentivi virtuosi” i singoli atenei saranno costretti a fare politiche conformi ai propri obiettivi istituzionali, perché, in caso contrario, vedranno drasticamente diminuire i fondi “statali” a loro disposizione.
Ancora una volta, invece, si procede dall’alto senza tenere in conto il potenziale ruolo sinergico che il Ministero dovrebbe avere con il mondo dell’università. Si rischia, cosi, di ripetere tutto quello che di sbagliato è stato fatto con la precedente riforma.
Per quanto riguarda gli accorpamenti che sono stati operati negli ultimi mesi, quest’azione potrebbe essere positiva per il paese se il progetto di fusione per molti atenei concorresse alla creazione di importanti clusters universitari capaci di generare ricerca di alto livello. Sul modello tedesco si potrebbe pensare per esempio di finanziare maggiormente 10 istituzioni (distribuite in maniera equa sul territorio nazionale) in cui si concentri la maggior parte dell’attività di ricerca. Uno dei problemi maggiori del nostro paese è infatti l’assenza di università leader capaci di fare da cassa di risonanza a livello internazionale. La prima università italiana nel ranking è Bologna, che si piazza al 192esimo posto nel mondo. Quest’assenza riduce la possibilità d’integrazione dell’università italiana nel panorama mondiale.
Per quale ragione, quindi, un valente studente straniero dovrebbe venire in Italia per un dottorato o per proseguire le sue ricerche? Nel nuovo scenario, le altre università più periferiche dovrebbero maggiormente concentrarsi sulla didattica e appoggiarsi ai dieci atenei di riferimento per la ricerca. Questa iniziativa ridurrebbe enormemente gli sprechi generati dall’eccessiva decentralizzazione.
Infine, occorre investire di più, in modo più efficiente e concentrato, limitando il numero di professori ordinari e accrescendo quello di dottorandi e ricercatori. La riforma risponde a questo bisogno solo parzialmente, riducendo si il peso dei professori ordinari, ma senza garantire adeguati nuovi fondi per i giovani ricercatori.
Il valore di una istituzione, tanto più se si parla dell’Università, dipende da quanto realmente essa
rappresenta il sistema in cui opera, ed oggi, come abbiamo fin qui analizzato, la società italiana non sembra considerare particolarmente importante il ruolo di tale istituzione. Come potrebbe essere diverso?
In un sistema caratterizzato, quindi, da bassa mobilità sociale, dove le relazioni familiari contano più delle qualità personali, l’Università non può essere considerata un investimento profittevole. Se a questo aggiungiamo un sistema economico con piccole imprese in settori manifatturieri tradizionali, in concorrenza soprattutto con i paesi emergenti, manca anche il collegamento con il mondo del lavoro.
L’unica cosa che conta è il titolo, “il pezzo di carta”, quindi la scelta dell’Università è la stessa che si fa per comprare il latte: il posto più vicino. In un sistema siffatto, senza controllo e pressione sociale, il sistema è lasciato in balia degli interessi degli attori interni e locali, ovvero, delle varie corporazioni che affollano i nostri atenei, da quelle dei professori a quelle degli studenti. In questo contesto l’Università perde totalmente il suo ruolo che dovrebbe essere quello di volano di una crescita sociale ed economica del paese.
Negli ultimi decenni, infatti, l’abbassamento della qualità e la proliferazione di corsi di laurea “facili” hanno portato il sistema ad essere ancora più classista. Per garantire un’adeguata mobilità sociale, più che spendere risorse per eliminare ogni numero chiuso, necessario soprattutto in quelle facoltà con elevati costi di gestione, sarebbe stato più opportuno investire tali fondi nel diritto allo studio (borse di studio, alloggi, mense, …). In tal modo si sarebbe garantita una reale parità di accesso all’istruzione universitaria, e non solo in apparenza.
Utilizzare qualche dato statistico sulla situazione del sistema educativo italiano, e in particolar modo di quello universitario, può essere utile per descrivere lo stato dell'Università italiana. Prendendo dai dati OCSE sull’istruzione (Education at glance), la spesa per studente in Italia è attorno alla media dei paesi OCSE per la scuola primaria e secondaria, ma nettamente al di sotto nel sistema universitario (8026 USD contro una media di 11512).
In realtà, Roberto Perotti nel suo ultimo libro ("L'Università truccata", Einaudi) rettifica quest’ultimo dato, affermando che considerando la piaga tutta italiana degli studenti fuori corso che non utilizzano le strutture universitarie, la spesa per studente anche nel sistema terziario si collocherebbe in media con i paesi OCSE.
I dati presentati da Daniele Checchi e Tullio Jappelli sulla Voce ci dicono qualcosa in più sull’evoluzione e sull’efficienza della struttura organizzativa del sistema universitario italiano.
Se le riforme del sistema universitario hanno prodotto dal 1985 al 2005 un aumento del numero di studenti immatricolati di circa il 65%, a questo incremento è corrisposto un aumento spropositato dell’offerta formativa. Le facoltà universitarie, infatti, sono aumentate di quasi il 90%, mentre il numero di corsi di laurea (considerando solo quelli magistrali) è passato da 778 a ben 2194 (+ 287%).Inoltre, bisogna ricordare che l’assegnazione dei fondi all’università tramite il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) fino al 2008 è avvenuta sostanzialmente a pioggia (criterio della spesa storica) a prescindere dai meriti accademici e di ricerca (dai dati del decreto Mussi 2008 sappiamo che solo il 2,2% dei fondi del FFO sono stati assegnati in base al merito).
Se a questi dati aggiungiamo concorsi truccati, baronaggio diffuso, ricerca scadente, fuga dei cervelli all’estero, abbiamo il quadro di un sistema chiaramente inefficiente che va assolutamente riformato. In un quadro del genere, l’Italia è lontanissima dal traguardo che si è posta a Lisbona: quello di una società basata sulla conoscenza.
Il cambiamento che chiediamo per i nostri atenei è quello che vorremmo vedere realizzato per l’intero paese a sostegno delle future generazioni, con un’istruzione accessibile e di livello, politiche per il diritto allo studio e la valorizzazione del merito, inserimento nel mercato del lavoro, semplificazione degli ordini professionali: quello che i giovani chiedono è la possibilità di avere accesso al proprio futuro.