venerdì 30 dicembre 2011

Università. Il diritto alla qualità

Intervista sull'università a Luciano Canfora
a cura di Bijoy M. Trentin

Nonostante negli ultimi anni il Ministero dell’Istruzione e quello dell’Università e della Ricerca siano stati accorpati e diretti da un unico Ministro, il mondo della scuola e quello dell’università sembrano essere tra di loro sempre piú lontani. Da un lato vi è quello scolastico che cerca di resistere ai tagli grazie alla forza e, non di rado, alla dedizione dei docenti, che lottano, spesso in condizioni estreme, contro le politiche dei saldi gelminiani. Dall’altro lato vi è il mondo accademico e della ricerca che, senza risorse, non è in grado di fare acrobazie a lungo pur di rimanere in piedi in séguito alla frana improvvisa dei fondi (anche ordinari), cosí che la cultura si impoverisce e invecchia sempre piú rapidamente. Tutte le politiche e le azioni demolitorie sono giustificate tramite la valorizzazione della “lotta agli sprechi”, che è, invece, precipuamente un’operazione di risparmi, e della “meritocrazia”, che è solo un modo burocratico di dire che è necessaria la “selezione” (cioè meno studenti nel sistema): cosí si può riuscire a investire meno risorse per l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni. Sulla situazione dell’università abbiamo intervistato il prof. Luciano Canfora, professore ordinario di Filologia classica presso l’Università di Bari. (B.M.T. 10/2011).

Oggi il mondo della scuola e quello dell’università appaiono sempre piú distanti tra loro e la cultura umanistica – soprattutto quella di certi àmbiti, come gli studi classici – sta vivendo (di nuovo) un momento di ‘crisi’. Cosa sta succedendo?

Sta emergendo l’idea che la ricerca pura sia confinabile all’alta specializzazione, dunque certi settori disciplinari sono considerati distanti dal mondo contemporaneo e persino poco utili anche alla formazione dei futuri docenti delle scuole. Invece, è vero proprio il contrario, visto l’elevato carattere formativo dell’esperienza diretta con la ricerca, che contribuisce in modo decisivo alla preparazione del bravo insegnante: la ricerca pura in campo umanistico e quella nelle scienze “dure” sono, nei loro rispettivi àmbiti, equiparabili, cioè sono imprescindibili.
Oggi, la cultura classica sopravvive nelle nostre scuole anche se ridotta sia dal punto di vista delle ore effettive di lezione sia da quello del ‘peso specifico’ all’interno dei curricula dei vari indirizzi di studi: solo gli antichisti protesi a un innovativo lavoro di ripensamento disciplinare e didattico potranno risultare straordinariamente efficaci all’interno del tessuto culturale, rinunciando alla propria supposta posizione di dominio. Rilanciare questo tipo di studi può essere un elemento distintivo e prolifico del contesto italiano se valorizzato al massimo: diversamente, svilire tali àmbiti disciplinari condurrà alla loro drastica riduzione prima e alla loro completa eliminazione poi, con conseguenze sensibili e facilmente percepibili (già riscontrate in altri paesi).


Negli ultimi decenni si è passati da un modello ‘esclusivo’ a uno ‘inclusivo’: come reputa il processo di massificazione attuato in Italia?

Purtroppo in Italia la massificazione dell’università è stata un fallimento, perché politicamente si è assunto il presupposto secondo cui, per allargare numericamente l’utenza, è inevitabile (se non persino necessario) l’abbassamento del livello qualitativo: al rapporto studente-docente è stato attribuito un valore di tipo demagogico su cui fare leva per avallare scelte che hanno condotto a decisioni catastrofiche, come anche quella correlata della formazione e del reclutamento dei ricercatori e dei professori.

Cioè la ricerca scientifica è stata messa in secondo piano?

Con il pretesto dell’“inclusione”, i giochi di potere e la mentalità sindacalistica hanno segnato in modo rovinoso le politiche universitarie degli ultimi trent’anni. I professori aggregati divennero automaticamente ordinari, nel 1973, con i “provvedimenti urgenti per l’università”, che comportarono anche, ope legis, la promozione ad assistenti di ruolo di tutti i “ternati” nei concorsi per assistente. Grazie alla legge 382, nel 1981-1982, questi ultimi divennero in gran parte ricercatori per la consueta interpretazione sindacalistica delle norme di legge. Persino accadde che l’applicazione della 382 includesse nel novero di coloro che dovevano passare nel ruolo di ricercatore, mediante concorsi riservati e apparenti, anche tutti i borsisti a vario titolo circolanti al momento. Tutto questo ha impedito che in prosieguo di tempo potesse avvenire un ricambio e soprattutto una crescita fondata sulla qualità. Il ruolo di ricercatore, da valorizzare nella sua concezione originaria, si adattò da sùbito ad una realtà diversa, divenendo tacitamente spesso un surrogato dell’assistente, grazie alla larghezza sindacalistica delle assunzioni. Scoprire improvvisamente che quella del ricercatore è una figura pleonastica fa sorridere: invece, andrebbero retrocessi quei docenti, oggi professori ordinari, che imposero, adoperando la forza del sindacato e del partito, l’interpretazione sindacalistica della 382.

E dunque quale sistema di reclutamento bisognerebbe adottare oggi?

Quello vigente soprattutto in Germania, Svizzera e Francia, dove le candidature si presentano direttamente alla Facoltà che bandisce il posto e che quindi si prende la responsabilità delle proprie scelte, sempre sottoposte a omogenei e altrettanto chiari criteri di valutazione. Diversamente, si potrebbe creare una vera lista nazionale svincolata dai bandi legati alle singole sedi, ma in questo caso la formazione delle commissioni giudicatrici non dovrebbe essere affidata solo al sorteggio.