Mentre il disegno di legge Gelmini di riforma dell’università attende che si sfoltisca la coda legislativa creata da questioni di vitale importanza e di estrema urgenza per il nostro paese (quali la legge sulle intercettazioni…), cerchiamo di conoscere meglio, dall’interno, il mondo dell’università e della ricerca. Abbiamo, perciò, ascoltato il parere del dr. Paolo Tieri, ricercatore presso il laboratorio di Immunologia del Centro Interdipartimentale “L. Galvani” dell’Università di Bologna. Una testimonianza, accorata e appassionata, che disegna un quadro attuale estremamente negativo e capace di subire ulteriori danni nel prossimo futuro.
Che tipo di ricerche svolge il Suo gruppo di ricerca? E lei in particolare? Quali applicazioni pratiche trovano le Vostre ricerche?
Il laboratorio di Immunologia diretto dal Prof. Claudio Franceschi si occupa di invecchiamento umano e longevità da un punto di vista principalmente immunologico e genetico. In particolare si studiano individui centenari e ultracentenari, che rappresentano appunto un modello di "buon invecchiamento". Il laboratorio è a capo e partecipa a diversi grandi progetti di ricerca europei, tra cui il progetto GEHA, acronimo che sta per 'genetica dell'invecchiamento in salute'. Io mi occupo di modellizzazione e analisi del sistema immunitario: in parole semplici, il funzionamento del sistema immunitario si basa sulla 'cooperazione' di organi e di miriadi di cellule e proteine, che lavorano in maniera coordinata e incredibilmente complessa per proteggere l'organismo da attacchi esterni e riparare i danni che esso subisce nel normale corso della vita. In pratica cerco di 'ricostruire', utilizzando anche metodi matematici e simulazioni al computer, la struttura e il funzionamento del sistema immunitario per avere predizioni del suo comportamento, da verificare poi sperimentalmente. Se la predizione è giusta, allora si è aggiunto un altro tassello alla comprensione del funzionamento del sistema nel suo complesso. Le applicazioni pratiche della conoscenza della biologia umana - e delle dinamiche dell'invecchiamento nel nostro particolare caso - sono, direi, lapalissiane: in ultima analisi, l'obiettivo è una medicina (e/o farmacologia) preventiva e personalizzata, molto più mirata, efficace e meno invadente di quella odierna. Per arrivare, però, dalle scoperte della ricerca di base all'applicazione clinica ci vuole molto tempo: gli investimenti nella ricerca fatti oggi si vedranno, forse, tra dieci, quindici anni... cosa che non deve spaventare: eravamo negli ani Sessanta quando nacque la prima rete di computer intercomunicanti, e nessuno immaginava Internet com'è attualmente...
Voi ricercatori, oltre a svolgere il lavoro di ricerca, avete incarichi didattici?
Sì. A parte i due ricercatori a tempo indeterminato (che sono solo due su venticinque...) che lo fanno 'istituzionalmente', qui da noi più o meno tutti tengono corsi, minicorsi, lezioni e seminari agli studenti di diversi corsi di laurea e di master. Attività non retribuita: nessuno riceve un euro in più rispetto al proprio assegno di ricerca, borsa di studio o normale stipendio da ricercatore.
Quali sono, allo stato attuale, i problemi e le criticità nel vostro settore di ricerca che andrebbero risolte in via prioritaria?
Io individuo principalmente tre temi, strettamente interconnessi e comuni alla ricerca scientifica italiana, non solo al nostro settore: la totale mancanza di prospettive per chi fa scienza, la cronica scarsezza di fondi e l'imbarazzante età media di chi insegna e fa ricerca all'università. Nessuno che voglia intraprendere questo mestiere in Italia può dire dove sarà e cosa starà facendo fra cinque-dieci anni. Diventare ricercatore a tempo indeterminato oggi è un'impresa titanica, un'assunzione che normalmente arriva molto raramente, dopo aver resistito per almeno una decina di anni con contratti precari. I contratti a termine (assegni di ricerca e ex co.co.co) a loro volta dipendono in toto dalla volontà e dalla disponibilità di fondi del professore che vuole assumerti. I fondi di ricerca provengono in maggioranza da progetti europei, sui quali il ricercatore precario non ha nessun controllo. Non c'è praticamente controllo sulla qualità della ricerca fatta, quindi chiunque detenga il potere di assumere personale di ricerca non deve rispondere a nessuno della sua produttività scientifica, con le ovvie storture che questo sistema porta. È una situazione disastrosa, che allontana i migliori dalla ricerca universitaria italiana, perché in questo modo non possono avere nessun controllo sulla propria carriera e sulla propria vita. Forse sono eccessivamente catastrofista, ma in questo desolante panorama, senza un drastico cambiamento, dettato da una volontà politica cosciente, sapiente e decisa, andiamo incontro a un vero e proprio termine della ricerca 'made in Italy'.
Come crede si possano risolvere le criticità da Lei evidenziate nel campo della ricerca scientifica?
Credo che la ricetta per tentare di salvare la scienza italiana sia tanto semplice nelle scelte da fare quanto difficile nel portarle realmente avanti, alle prese con potentati, baronati, gerontocrazie e burocrazie che gestiscono questo paese. Bisogna che chi 'comanda', chi gestisce un ministero, capisca cosa vuol dire fare ricerca, una grandiosa e difficile impresa a lungo, lunghissimo termine, gestita da menti appassionate, brillanti e capaci di immaginazione. Bisogna che i fondi e gli investimenti dedicati aumentino almeno ai livelli di Germania, Francia, Inghilterra, Scandinavia (per non nominare gli USA o il Giappone...). Bisogna, ancora, che questi fondi siano gestiti in modo trasparente su base esclusivamente meritocratica, senza la mediazione di niente altro che di una agenzia per la ricerca che sia rigorosa e totalmente indipendente dalla politica, troppo intrecciata agli interessi di pochi. Infine bisogna che i passi della carriera di un ricercatore siano precisi e scadenzati, e legati esclusivamente alla sua capacità di fare vera scienza, fuori dalle dinamiche malate che oggi stroncano anche le più ferree volontà.
Gli ultimi interventi legislativi, e, in particolare, la proposta di riforma del ministro Gelmini, vanno in questa direzione? Cercano di dare risposta a queste necessità?
Nessuna delle cosiddette riforme universitarie presentate fino a ora, compresa ovviamente quella della Gelmini, rispondono minimamente a queste necessità. Sono maquillage, aggiustamenti di facciata, sono sbagliati e inefficaci, fatti cadere dall'alto senza sapere bene cosa si sta facendo, senza ascoltare le parti in gioco, senza sentire il parere di chi la ricerca la fa, con fatica e passione. Ma c'è di più: tra Finanziaria e legge Gelmini c'è in atto un vero e proprio tentativo di destrutturare e distruggere l'università statale. Come leggere le riduzioni drammatiche del Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università? E la fortissima limitazione del turn-over delle assunzioni per (almeno) un quadriennio? E il prolungamento e l'istituzione di nuove figure di ricerca precarie? Mettiamoci dentro anche il disegno 'autoritario' di governo dell'università, e tutto ciò non può che apparire come una riforma 'contro', e non dell'università, un attacco all'istituzione università in quanto luogo di "libera azione di libere menti" (V. Bush). Nessuno può permettersi il lusso di rimanere inerte a guardare questa desolazione.
Emanuela De Luca
domenica 8 agosto 2010
Ancora sul DDL Gelmini. A colloquio con gli studenti.
I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi,
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto
con borse di studio, assegni alle famiglie
ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Costituzione della Repubblica Italiana, art. 34
Del resto, mia cara, di che si stupisce,
anche l’operaio vuole il figlio dottore
e pensi che ambiente ne può venir fuori,
non c’è più morale, contessa…P. Pietrangeli, Contessa
I provvedimenti più discussi contenuti nel DDL Gelmini riguardano, come abbiamo messo in luce nella scorsa intervista [http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/06/la-protesta-dei-ricercatori.html], principalmente i ricercatori. Ma la nostra attenzione è caduta su un’altra norma contenuta nella bozza del disegno di legge: l’art. 4 “Fondo per il merito” per mezzo del quale “è istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze un Fondo speciale per il merito finalizzato a promuovere l’eccellenza e il merito fra gli studenti mediante prove nazionali standard (comma 1)”. Si tratta di un intervento riguardante il diritto allo studio; difatti “il Fondo è destinato a: a) erogare borse di studio da utilizzare per il pagamento di tasse e contributi universitari, nonché per la copertura delle spese di mantenimento durante gli studi; b) fornire buoni studio […] che prevedano una quota da restituire al termine degli studi […]; c) garantire prestiti d’onore […]” (comma 1). “Il Ministro, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze […] con propri decreti disciplina i criteri e le modalità di attuazione del presente articolo ed in particolare a) i criteri d’accesso alle prove nazionali standard; b) i criteri e le modalità di attribuzione delle borse e dei buoni di accesso ai finanziamenti garantiti; […] e) i requisiti di merito che gli studenti devono rispettare nel corso degli studi per mantenere il diritto a borse, buoni e finanziamenti garantiti; f) le modalità di utilizzo di borse, buoni e finanziamenti garantiti; […] i) le modalità di svolgimento delle prove nazionali standard” (comma 2). Sebbene il Fondo venga istituito presso il Ministero dell’economia e i criteri di funzionamento vengano disciplinati dal MIUR, “la gestione del Fondo, dei rapporti amministrativi con università e studenti è affidata a Consap s.p.a.” (comma 3) e “gli oneri di gestione e le spese di funzionamento degli interventi relativi al Fondo sono a carico delle risorse finanziare del fondo stesso” (comma 4). Ma chi eroga i finanziamenti per questo fondo? La risposta (vaga) negli articoli successivi: “Il Ministero dell’economia e delle finanze, con propri decreti, determina, secondo criteri di mercato, il corrispettivo per la garanzia dello Stato, da imputare ai finanziamenti erogati” (comma 5); “il Fondo speciale è alimentato con versamenti effettuati a titolo spontaneo e solidale effettuato da privati, società, enti e fondazioni, anche vincolati, nel rispetto delle finalità del fondo, a specifici usi, nonché con eventuali trasferimenti pubblici previsti da specifiche disposizioni” (comma 6); “il Ministero, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, promuove anche con apposite convenzioni, il concorso dei privati e disciplina con proprio decreto le modalità cui i soggetti donatori possono partecipare allo sviluppo del Fondo, anche costituendo, senza oneri per la finanza pubblica, un comitato consultivo” (comma 7). Nella bozza di decreto restano vaghi e dubbi molti aspetti, ad esempio la tipologia dei test nazionali, i finanziamenti su cui contare e dunque la quantità delle borse erogate.
Abbiamo chiesto, pertanto, un parere in generale sul DDL e in particolare sull’art. 4 ad Angelo Rinaldi, studente di Filosofia presso l’Ateneo bolognese e rappresentante degli studenti facente parte del “Sindacato degli Universitari”.
Le proteste più rumorose contro il DDL Gelmini sono state, finora, quelle dei ricercatori e di alcuni rettori. Le rappresentanze studentesche nazionali, invece, hanno espresso un parere in merito? Come hanno accolto questa proposta di riforma?
A livello nazionale le rappresentanze studentesche hanno espresso il loro parere su questo DDL; l’UDU (Unione degli Universitari) sia attraverso i forum istituzionali del Ministero sia attraverso il CNSU (Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari) ha posto un veto, ha detto “si parli di riforma ma si parli con gli studenti e non si chieda loro semplicemente una ratifica di ciò che è stato già deciso, e soprattutto si mettano in discussione i tagli”. Su questo l’UDU è stata molto netta e rigida: bisogna sfatare il mito per cui si può riformare l’università a costo zero. Un comportamento diverso abbiamo avuto dal CLDS (Coordinamento Liste Diritto allo Studio), che ha fondamentalmente ratificato già la legge 133 e ha chiesto dei piccoli compensativi sul diritto allo studio – che tra l’altro la Gelmini ha dato subito dopo il periodo dell’Onda, quindi come contentino per mettere a tacere quell’enorme protesta, cioè sono state concessioni frutto di una contingenza e non contrattazioni dirette del CLDS.
Esaminiamo la norma che riguarda più da vicino gli studenti, cioè l’istituzione del Fondo per il merito. Prima, però, può illustrarci l’attuale organizzazione del sostegno al diritto allo studio, i suoi punti forti e le criticità.
Attualmente il sostegno al diritto allo studio è gestito principalmente dalle Aziende regionali per il diritto allo studio universitario, che con i fondi provenienti per lo più dalle Regioni, finanziano le borse di studio. L’erogazione delle borse si basa su questo principio: se il nucleo familiare di cui fa parte lo studente rientra in determinati parametri economici, può fare domanda di borsa di studio (o usufruire di fasce di contribuzione ridotta, a seconda sempre dei parametri economici) presso l’università a cui è iscritto e, rimanendo immutate tali condizioni, lo studente usufruisce della borsa a patto che, ovviamente, alla fine di ogni anno riesca ad acquisire un certo numero di crediti formativi. Inoltre è previsto, almeno in Emilia Romagna, un certo numero di borse di studio per solo merito, erogato indipendentemente dai requisiti economici dello studente. Il punto di forza di questo sistema è proprio il fatto di considerare prioritaria la condizione sociale di partenza dello studente e di basarsi su quella per sostenere il suo diritto a studiare. Un difetto, a parer mio, è che questo sistema non tiene conto dell’andamento complessivo, cioè tiene conto, sì, dei crediti formativi, ma questi possono essere di qualsiasi tipologia, possono essere conseguiti con qualsiasi voto, e sono concepiti talvolta con un sistema molto rigido, cioè sono gli stessi sia per lo studente che studia e basta, sia per chi fa l’Erasmus, sia per chi lavora, sia per chi fa un’esperienza di tirocinio. Non è una cosa drammatica, certo, però da questo punto di vista si potrebbero creare percorsi più flessibili, diversificati a seconda della tipologia dello studente. Altro difetto è che si eroga il contributo non allo studente per il proprio percorso formativo, ma al suo nucleo familiare perché lo studente possa avere un percorso formativo; in tal modo non si prevede che proprio quei nuclei più disagiati chiedono un contributo maggiore allo studente. Infine difficilmente tutti gli studenti idonei ad usufruire della borsa di studio riescono ad essere anche assegnatari, poiché i finanziamenti non riescono sempre a coprire tutto il numero delle borse.
L’istituzione del Fondo per il merito come si inserisce in questo quadro? Risolve i problemi e le carenze dell’attuale sistema di diritto allo studio?
Assolutamente no, anzi, costituisce un passo indietro rispetto al diritto allo studio. Innanzitutto perché è un provvedimento che fa parte di una riforma che dovrà esser fatta a costo zero; a ciò si aggiunge il fatto che la riforma è preceduta e accompagnata da tagli, prima quelli della legge 133/2008 e poi da ultimo la manovra finanziaria, che taglia indiscriminatamente anche i fondi alle Regioni. Inoltre noi, come Sindacato degli Universitari, riteniamo che proprio il principio che sta alla base del Fondo per il merito sia sbagliato. La logica è questa: il Ministero eroga la borsa allo studente a prescindere dalla sua provenienza regionale, dall’appartenenza a un sistema di diritto allo studio (in quanto il fondo per il merito è su base nazionale) perché ha dei requisiti considerati meritori. Una volta ottenuta la borsa, lo studente va a scegliersi l’università che ritiene migliore. In sostanza è un’idea abbastanza malata di libero mercato del sapere. Dov’è che non funziona poi questa logica? Nel momento in cui si va a fare il test nazionale delle borse di merito, con un quizzone a crocette, quasi fosse l’esame per la patente, non il diritto allo studio. Altro problema: siccome il prelievo fiscale avverrà sulle borse di studio, per più anni il Ministero attribuisce borse di merito e per più anni le conferma agli studenti che le hanno già prese, meno soldi passa alle Regioni per il diritto allo studio. E quindi meno soldi le Regioni sono vincolate a metterci perché c’è il vincolo che se, ad esempio, il Ministero eroga un euro, la Regione deve mettercene un altro. Quindi tagliando un euro se ne tagliano due. La nostra paura qual è? È che si vada a togliere il diritto allo studio come welfare, come diritto sancito costituzionalmente, e lo si vada a trasformare in un incentivo premiante basato su criteri di merito che sono tutt’altro che discutibili. La meritocrazia intesa in questo modo porta alla scelta di coloro che magari provengono da un tessuto sociale migliore ed hanno possibilità economiche maggiori, quindi si va a selezionare il più forte socialmente, si va a rimarcare una gerarchia economica. Tutt’altro che studio inteso come mezzo di progressione sociale. L’Università invece, essendo un’istituzione formativa, deve avere la serietà e il coraggio di dare i mezzi prioritariamente a chi non li possiede, a chi economicamente non ce la fa (a patto sempre che rispetti e rientri nei parametri economici e di crediti conseguiti), soprattutto in questo periodo. Invece si istituzionalizza un principio esattamente opposto.
In generale, al di là dell’art. 4, qual è il vostro parere sul DDL Gelmini?
Secondo noi, sulla governance contiene un principio condivisibile: il fatto che il CDA e il Senato accademico debbano avere competenze nette e diverse. Per il resto, questo è un testo non discutibile, ma proprio irricevibile perché intende riformare l’università senza investire neanche un soldo. Se davvero si vuole parlare di riforma dell’università, allora, secondo noi, bisogna prendere in considerazione questi punti: diritto allo studio, qualità della didattica (che non dovrebbe essere semplicemente riproduttiva, soprattutto nelle facoltà umanistiche, e non dovrebbe basarsi solo sulla quantità degli studenti laureati), governance migliore, responsabilità (non si possono aprire le sedi universitarie come i funghi). Se la riforma deve servire solo a fare cassa, allora no, non si discute neanche. Per questo le ultime normative sono irricevibili, perché noi vogliamo parlare di università come istituzione formativa, il governo, invece, di esigenze di bilancio spacciandole per riforma.
Emanuela De Luca
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto
con borse di studio, assegni alle famiglie
ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Costituzione della Repubblica Italiana, art. 34
Del resto, mia cara, di che si stupisce,
anche l’operaio vuole il figlio dottore
e pensi che ambiente ne può venir fuori,
non c’è più morale, contessa…P. Pietrangeli, Contessa
I provvedimenti più discussi contenuti nel DDL Gelmini riguardano, come abbiamo messo in luce nella scorsa intervista [http://rdsuniversita.blogspot.com/2010/06/la-protesta-dei-ricercatori.html], principalmente i ricercatori. Ma la nostra attenzione è caduta su un’altra norma contenuta nella bozza del disegno di legge: l’art. 4 “Fondo per il merito” per mezzo del quale “è istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze un Fondo speciale per il merito finalizzato a promuovere l’eccellenza e il merito fra gli studenti mediante prove nazionali standard (comma 1)”. Si tratta di un intervento riguardante il diritto allo studio; difatti “il Fondo è destinato a: a) erogare borse di studio da utilizzare per il pagamento di tasse e contributi universitari, nonché per la copertura delle spese di mantenimento durante gli studi; b) fornire buoni studio […] che prevedano una quota da restituire al termine degli studi […]; c) garantire prestiti d’onore […]” (comma 1). “Il Ministro, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze […] con propri decreti disciplina i criteri e le modalità di attuazione del presente articolo ed in particolare a) i criteri d’accesso alle prove nazionali standard; b) i criteri e le modalità di attribuzione delle borse e dei buoni di accesso ai finanziamenti garantiti; […] e) i requisiti di merito che gli studenti devono rispettare nel corso degli studi per mantenere il diritto a borse, buoni e finanziamenti garantiti; f) le modalità di utilizzo di borse, buoni e finanziamenti garantiti; […] i) le modalità di svolgimento delle prove nazionali standard” (comma 2). Sebbene il Fondo venga istituito presso il Ministero dell’economia e i criteri di funzionamento vengano disciplinati dal MIUR, “la gestione del Fondo, dei rapporti amministrativi con università e studenti è affidata a Consap s.p.a.” (comma 3) e “gli oneri di gestione e le spese di funzionamento degli interventi relativi al Fondo sono a carico delle risorse finanziare del fondo stesso” (comma 4). Ma chi eroga i finanziamenti per questo fondo? La risposta (vaga) negli articoli successivi: “Il Ministero dell’economia e delle finanze, con propri decreti, determina, secondo criteri di mercato, il corrispettivo per la garanzia dello Stato, da imputare ai finanziamenti erogati” (comma 5); “il Fondo speciale è alimentato con versamenti effettuati a titolo spontaneo e solidale effettuato da privati, società, enti e fondazioni, anche vincolati, nel rispetto delle finalità del fondo, a specifici usi, nonché con eventuali trasferimenti pubblici previsti da specifiche disposizioni” (comma 6); “il Ministero, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, promuove anche con apposite convenzioni, il concorso dei privati e disciplina con proprio decreto le modalità cui i soggetti donatori possono partecipare allo sviluppo del Fondo, anche costituendo, senza oneri per la finanza pubblica, un comitato consultivo” (comma 7). Nella bozza di decreto restano vaghi e dubbi molti aspetti, ad esempio la tipologia dei test nazionali, i finanziamenti su cui contare e dunque la quantità delle borse erogate.
Abbiamo chiesto, pertanto, un parere in generale sul DDL e in particolare sull’art. 4 ad Angelo Rinaldi, studente di Filosofia presso l’Ateneo bolognese e rappresentante degli studenti facente parte del “Sindacato degli Universitari”.
Le proteste più rumorose contro il DDL Gelmini sono state, finora, quelle dei ricercatori e di alcuni rettori. Le rappresentanze studentesche nazionali, invece, hanno espresso un parere in merito? Come hanno accolto questa proposta di riforma?
A livello nazionale le rappresentanze studentesche hanno espresso il loro parere su questo DDL; l’UDU (Unione degli Universitari) sia attraverso i forum istituzionali del Ministero sia attraverso il CNSU (Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari) ha posto un veto, ha detto “si parli di riforma ma si parli con gli studenti e non si chieda loro semplicemente una ratifica di ciò che è stato già deciso, e soprattutto si mettano in discussione i tagli”. Su questo l’UDU è stata molto netta e rigida: bisogna sfatare il mito per cui si può riformare l’università a costo zero. Un comportamento diverso abbiamo avuto dal CLDS (Coordinamento Liste Diritto allo Studio), che ha fondamentalmente ratificato già la legge 133 e ha chiesto dei piccoli compensativi sul diritto allo studio – che tra l’altro la Gelmini ha dato subito dopo il periodo dell’Onda, quindi come contentino per mettere a tacere quell’enorme protesta, cioè sono state concessioni frutto di una contingenza e non contrattazioni dirette del CLDS.
Esaminiamo la norma che riguarda più da vicino gli studenti, cioè l’istituzione del Fondo per il merito. Prima, però, può illustrarci l’attuale organizzazione del sostegno al diritto allo studio, i suoi punti forti e le criticità.
Attualmente il sostegno al diritto allo studio è gestito principalmente dalle Aziende regionali per il diritto allo studio universitario, che con i fondi provenienti per lo più dalle Regioni, finanziano le borse di studio. L’erogazione delle borse si basa su questo principio: se il nucleo familiare di cui fa parte lo studente rientra in determinati parametri economici, può fare domanda di borsa di studio (o usufruire di fasce di contribuzione ridotta, a seconda sempre dei parametri economici) presso l’università a cui è iscritto e, rimanendo immutate tali condizioni, lo studente usufruisce della borsa a patto che, ovviamente, alla fine di ogni anno riesca ad acquisire un certo numero di crediti formativi. Inoltre è previsto, almeno in Emilia Romagna, un certo numero di borse di studio per solo merito, erogato indipendentemente dai requisiti economici dello studente. Il punto di forza di questo sistema è proprio il fatto di considerare prioritaria la condizione sociale di partenza dello studente e di basarsi su quella per sostenere il suo diritto a studiare. Un difetto, a parer mio, è che questo sistema non tiene conto dell’andamento complessivo, cioè tiene conto, sì, dei crediti formativi, ma questi possono essere di qualsiasi tipologia, possono essere conseguiti con qualsiasi voto, e sono concepiti talvolta con un sistema molto rigido, cioè sono gli stessi sia per lo studente che studia e basta, sia per chi fa l’Erasmus, sia per chi lavora, sia per chi fa un’esperienza di tirocinio. Non è una cosa drammatica, certo, però da questo punto di vista si potrebbero creare percorsi più flessibili, diversificati a seconda della tipologia dello studente. Altro difetto è che si eroga il contributo non allo studente per il proprio percorso formativo, ma al suo nucleo familiare perché lo studente possa avere un percorso formativo; in tal modo non si prevede che proprio quei nuclei più disagiati chiedono un contributo maggiore allo studente. Infine difficilmente tutti gli studenti idonei ad usufruire della borsa di studio riescono ad essere anche assegnatari, poiché i finanziamenti non riescono sempre a coprire tutto il numero delle borse.
L’istituzione del Fondo per il merito come si inserisce in questo quadro? Risolve i problemi e le carenze dell’attuale sistema di diritto allo studio?
Assolutamente no, anzi, costituisce un passo indietro rispetto al diritto allo studio. Innanzitutto perché è un provvedimento che fa parte di una riforma che dovrà esser fatta a costo zero; a ciò si aggiunge il fatto che la riforma è preceduta e accompagnata da tagli, prima quelli della legge 133/2008 e poi da ultimo la manovra finanziaria, che taglia indiscriminatamente anche i fondi alle Regioni. Inoltre noi, come Sindacato degli Universitari, riteniamo che proprio il principio che sta alla base del Fondo per il merito sia sbagliato. La logica è questa: il Ministero eroga la borsa allo studente a prescindere dalla sua provenienza regionale, dall’appartenenza a un sistema di diritto allo studio (in quanto il fondo per il merito è su base nazionale) perché ha dei requisiti considerati meritori. Una volta ottenuta la borsa, lo studente va a scegliersi l’università che ritiene migliore. In sostanza è un’idea abbastanza malata di libero mercato del sapere. Dov’è che non funziona poi questa logica? Nel momento in cui si va a fare il test nazionale delle borse di merito, con un quizzone a crocette, quasi fosse l’esame per la patente, non il diritto allo studio. Altro problema: siccome il prelievo fiscale avverrà sulle borse di studio, per più anni il Ministero attribuisce borse di merito e per più anni le conferma agli studenti che le hanno già prese, meno soldi passa alle Regioni per il diritto allo studio. E quindi meno soldi le Regioni sono vincolate a metterci perché c’è il vincolo che se, ad esempio, il Ministero eroga un euro, la Regione deve mettercene un altro. Quindi tagliando un euro se ne tagliano due. La nostra paura qual è? È che si vada a togliere il diritto allo studio come welfare, come diritto sancito costituzionalmente, e lo si vada a trasformare in un incentivo premiante basato su criteri di merito che sono tutt’altro che discutibili. La meritocrazia intesa in questo modo porta alla scelta di coloro che magari provengono da un tessuto sociale migliore ed hanno possibilità economiche maggiori, quindi si va a selezionare il più forte socialmente, si va a rimarcare una gerarchia economica. Tutt’altro che studio inteso come mezzo di progressione sociale. L’Università invece, essendo un’istituzione formativa, deve avere la serietà e il coraggio di dare i mezzi prioritariamente a chi non li possiede, a chi economicamente non ce la fa (a patto sempre che rispetti e rientri nei parametri economici e di crediti conseguiti), soprattutto in questo periodo. Invece si istituzionalizza un principio esattamente opposto.
In generale, al di là dell’art. 4, qual è il vostro parere sul DDL Gelmini?
Secondo noi, sulla governance contiene un principio condivisibile: il fatto che il CDA e il Senato accademico debbano avere competenze nette e diverse. Per il resto, questo è un testo non discutibile, ma proprio irricevibile perché intende riformare l’università senza investire neanche un soldo. Se davvero si vuole parlare di riforma dell’università, allora, secondo noi, bisogna prendere in considerazione questi punti: diritto allo studio, qualità della didattica (che non dovrebbe essere semplicemente riproduttiva, soprattutto nelle facoltà umanistiche, e non dovrebbe basarsi solo sulla quantità degli studenti laureati), governance migliore, responsabilità (non si possono aprire le sedi universitarie come i funghi). Se la riforma deve servire solo a fare cassa, allora no, non si discute neanche. Per questo le ultime normative sono irricevibili, perché noi vogliamo parlare di università come istituzione formativa, il governo, invece, di esigenze di bilancio spacciandole per riforma.
Emanuela De Luca
domenica 1 agosto 2010
La discussione pubblica del DdL Gelmini.
Emanuela De Luca
In queste settimane di fermento all’interno delle università italiane continuano a prodursi occasioni di dibattito e critica pubblica sul DDL Gelmini di riforma dell’università. Così a Bologna, dove lo scorso 28 giugno, si è svolta una assemblea pubblica su questo tema organizzata dalla Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL di Bologna presso l’Aula Magna di Scienze Statistiche.
Sono intervenuti Manuela Ghizzoni (capogruppo del Partito Democratico alla Commissione Istruzione e Cultura della Camera dei Deputati), il prof. Ivano Dionigi (Magnifico Rettore dell’Università di Bologna), Patrizio Bianchi (Assessore Regionale Scuola, Formazione, Università, Lavoro) e Sandra Soster (Segretaria Generale FFLC CGIL Bologna). Soster ha iniziato col fornire un quadro generale della situazione in cui si trova l’università italiana alla luce dei provvedimenti normativi degli ultimi due anni. Ripercorrendo le tappe normative più recenti che hanno preceduto il DDL Gelmini (in particolare il DDL 112/2008 poi diventato legge 133/2008) e l’ultima manovra finanziaria, ha sottolineato come, da una parte, l’opinione pubblica e tutto il mondo del lavoro siano sensibili ai tagli sulla ricerca e sui giovani, puntando il dito contro gli enti locali e le forze di opposizione che – a suo parere – hanno avuto una reazione forte e decisa solo da ultimo. Con il disegno di riforma dell’università e con la recente manovra finanziaria – ha affermato Soster – « il merito viene archiviato come una categoria dello spirito, tutti sono ugualmente colpiti, alcuni più degli altri, ossia gli assegnisti e i docenti a contratto, spazzati via come stracci al vento anche se sono stati parte attiva nella produzione dei successi nella didattica, nella ricerca, nella gestione oculata degli atenei; e poi gli studenti e la qualità dei corsi e servizi loro offerti, della prospettiva dell’aumento delle tasse; sono i giovani e i meno giovani che non riusciranno ad entrare più e a garantire all’università il ricambio generazionale». Individuati questi nodi centrali, l’esponente CCGIL ha chiesto alle forze di opposizione e agli amministratori azioni convergenti verso due obiettivi: render bravi molti e finanziare ricerca e formazione. La parola è passata quindi all’onorevole Ghizzoni, la quale iniziando dal “percorso accidentato del disegno di legge” ha ricordato come «questo disegno di legge è stato più volte annunciato nel corso dell’anno scorso, la ministra si prese più di sei mesi dal momento in cui lo annunciò in pompa magna con un seminario (a cui le forze di opposizione non vennero peraltro invitate, ma vennero invitati soltanto alcuni rettori) e finalmente in ottobre lo depositò. Ad oggi ancora il progetto non è approdato in aula, non certo – come sostiene la ministra – per i ritardi dovuti ai farraginosi regolamenti del Senato, che in realtà non sono altro che tutele delle procedure democratiche. Il DDL, che ormai da un mese ha chiuso il proprio iter in Commissione Senato, non è approdato in aula perché molte cose sono state valutate prioritarie rispetto a questo disegno di legge, tra queste il decreto sulle intercettazioni, che è stato inserito con procedura d’urgenza in aula».
Manovra finanziaria permettendo, il disegno sulla riforma universitaria dovrebbe approdare in aula intorno alla metà di luglio. Quanto alla posizione del Partito Democratico, l’onorevole Ghizzoni ha ribadito con forza il fermo no e l’opposizione decisa che il suo partito ha già fatto in commissione Senato e farà nel momento in cui il DDL arriverà alla Camera, dove probabilmente si ripartirà quasi da zero in quanto il testo non è più quello licenziato dalla Gelmini.
L’onorevole ha aggiunto: «Questo ddl ha la stessa matrice dei provvedimenti sulla scuola. Questo governo procede a ridisegnare la società – democratica, uscita dalla costituzione – in modo regressivo, reazionario e lo fa intervenendo pesantemente sul sistema della conoscenza».
Nel suo intervento, il Magnifico Rettore dell’ateneo bolognese Ivano Dionigi, pur premettendo che l’80% dei principi del DDL possono essere condivisi e che le università con i propri statuti potranno agire in piena autonomia, ha rilevato tuttavia la situazione di tagli e di “cifre ballerine” che impediscono di elaborare un piano pluriennale certo. Questa situazione di incertezza – ha afferma– è aggravata dal contesto di credibilità pari a zero dei docenti e del personale accademico. Pertanto invita i docenti a fare una severa autocritica, in particolare sulla proliferazione di corsi in seguito alla riforma del 3+2, sulla improduttività scientifica di alcuni docenti e ricercatori, sui “docenti fantasma”, sui concorsi in cui a volte la selezione è “al rovescio”. Quanto alla situazione dei ricercatori – che viene definita “patologica” – il Rettore, ribadendo la posizione di solidarietà e sostegno assunta di recente dal Senato accademico, ha sostenuto che si debba innanzitutto moralizzare l’uso di queste risorse, che i posti flessibili si debbano relazionare alle assunzioni programmate e afferma che entro la fine dell’anno verranno banditi altri 22 concorsi.
Altro punto critico del decreto, secondo il Rettore Dionigi, è la totale mancanza di sostegno al diritto allo studio. Tuttavia, a fronte di altri atenei che hanno già programmato per il prossimo anno accademico un aumento cospicuo delle tasse universitarie e una diminuzione di finanziamenti per il diritto allo studio, il rettore ha informato che gli studenti di Bologna non pagheranno un euro in più di tasse e che non è stato loro tolto nulla dai sussidi al diritto allo studio.
L’Assessore regionale alla Scuola e Università Patrizio Bianchi, – ammettendo che la riforma universitaria del 2000 è stata un’occasione mancata di trasformazione dell’università dall’interno – ha condiviso il dissenso nei confronti di quella che ha chiamato “riforma Tremontini”.
Quanto alla situazione specifica dell’Emilia Romagna, ha proposto la riapertura della conferenza Regione-università – sottolineando come la piattaforma universitaria che va da Piacenza a Rimini debba ottimizzare le risorse al meglio e questo voglia dire «verificare l’offerta didattica, verificare le competenze esistenti, il funzionamento delle strutture di ricerca», e ha suggerito ai rettori di proporre degli accordi diretti col Ministero.
A margine degli interventi degli ospiti, alcuni dei presenti tra il pubblico hanno aggiunto osservazioni, dubbi e proposte. Tra questi, il prof. Leonardo Altieri (docente del dipartimento di Sociologia) ha notato, oltre l’estrema gravità dei tagli e il problema del precariato dei ricercatori, la mancanza assoluta di coerenza tra i principi della qualità della didattica e della meritocrazia affermati dal DDL e quella che dovrebbe essere la messa in pratica di questi principi.
Michele Filippini (della Rete Ricercatori Precari di Bologna), di fronte all’importanza e al ruolo indispensabile degli assegnisti e dei docenti a contratto, che sono un “pezzo di produzione del merito di questa università”, ha chiesto al rettore un tavolo di trattative grazie al quale si possa discutere di forme contrattuali più adeguate e dignitose per i precari.
Accorato l’appello della prof.ssa Maria Giuseppina Muzzarelli (docente di Storia medievale), la quale, esprimendo il proprio “imbarazzo generazionale”, ha invitato il rettore e le forze politiche di opposizione ad essere chiari, decisi, uniti e combattivi sui punti sui quali si intende far leva, esprimendo forti dubbi sulla possibilità di conciliare elementi tra loro contrastanti quali la qualificazione di molti, la ricerca pubblica e l’assenza di finanziamenti, ed esorta tutti ad una cosciente razionalizzazione delle risorse nell’ambito delle diverse sedi universitarie della regione.
Del medesimo tono l’intervento della prof.ssa Paola Monari, di Statistica, fortemente preoccupata per la situazione attuale, che ha invitato i docenti come lei a sostenere i ricercatori (che sono una ricchezza) e a non renderla vana assumendo l’incarico degli insegnamenti che potrebbero essere rifiutati in caso di protesta. A conclusione dell’assemblea, il rettore ha ribadito: «Preferisco sfidare il Governo piuttosto che sfilare» e l’onorevole Ghizzoni, ripetendo il forte dissenso che il PD esprimerà in Parlamento, ha chiesto dei toni più accesi anche da parte dei rettori e che vi sia un’azione convergente nei confronti della protesta dei ricercatori perché «la loro rabbia è l’unica cosa che il Governo teme».
In queste settimane di fermento all’interno delle università italiane continuano a prodursi occasioni di dibattito e critica pubblica sul DDL Gelmini di riforma dell’università. Così a Bologna, dove lo scorso 28 giugno, si è svolta una assemblea pubblica su questo tema organizzata dalla Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL di Bologna presso l’Aula Magna di Scienze Statistiche.
Sono intervenuti Manuela Ghizzoni (capogruppo del Partito Democratico alla Commissione Istruzione e Cultura della Camera dei Deputati), il prof. Ivano Dionigi (Magnifico Rettore dell’Università di Bologna), Patrizio Bianchi (Assessore Regionale Scuola, Formazione, Università, Lavoro) e Sandra Soster (Segretaria Generale FFLC CGIL Bologna). Soster ha iniziato col fornire un quadro generale della situazione in cui si trova l’università italiana alla luce dei provvedimenti normativi degli ultimi due anni. Ripercorrendo le tappe normative più recenti che hanno preceduto il DDL Gelmini (in particolare il DDL 112/2008 poi diventato legge 133/2008) e l’ultima manovra finanziaria, ha sottolineato come, da una parte, l’opinione pubblica e tutto il mondo del lavoro siano sensibili ai tagli sulla ricerca e sui giovani, puntando il dito contro gli enti locali e le forze di opposizione che – a suo parere – hanno avuto una reazione forte e decisa solo da ultimo. Con il disegno di riforma dell’università e con la recente manovra finanziaria – ha affermato Soster – « il merito viene archiviato come una categoria dello spirito, tutti sono ugualmente colpiti, alcuni più degli altri, ossia gli assegnisti e i docenti a contratto, spazzati via come stracci al vento anche se sono stati parte attiva nella produzione dei successi nella didattica, nella ricerca, nella gestione oculata degli atenei; e poi gli studenti e la qualità dei corsi e servizi loro offerti, della prospettiva dell’aumento delle tasse; sono i giovani e i meno giovani che non riusciranno ad entrare più e a garantire all’università il ricambio generazionale». Individuati questi nodi centrali, l’esponente CCGIL ha chiesto alle forze di opposizione e agli amministratori azioni convergenti verso due obiettivi: render bravi molti e finanziare ricerca e formazione. La parola è passata quindi all’onorevole Ghizzoni, la quale iniziando dal “percorso accidentato del disegno di legge” ha ricordato come «questo disegno di legge è stato più volte annunciato nel corso dell’anno scorso, la ministra si prese più di sei mesi dal momento in cui lo annunciò in pompa magna con un seminario (a cui le forze di opposizione non vennero peraltro invitate, ma vennero invitati soltanto alcuni rettori) e finalmente in ottobre lo depositò. Ad oggi ancora il progetto non è approdato in aula, non certo – come sostiene la ministra – per i ritardi dovuti ai farraginosi regolamenti del Senato, che in realtà non sono altro che tutele delle procedure democratiche. Il DDL, che ormai da un mese ha chiuso il proprio iter in Commissione Senato, non è approdato in aula perché molte cose sono state valutate prioritarie rispetto a questo disegno di legge, tra queste il decreto sulle intercettazioni, che è stato inserito con procedura d’urgenza in aula».
Manovra finanziaria permettendo, il disegno sulla riforma universitaria dovrebbe approdare in aula intorno alla metà di luglio. Quanto alla posizione del Partito Democratico, l’onorevole Ghizzoni ha ribadito con forza il fermo no e l’opposizione decisa che il suo partito ha già fatto in commissione Senato e farà nel momento in cui il DDL arriverà alla Camera, dove probabilmente si ripartirà quasi da zero in quanto il testo non è più quello licenziato dalla Gelmini.
L’onorevole ha aggiunto: «Questo ddl ha la stessa matrice dei provvedimenti sulla scuola. Questo governo procede a ridisegnare la società – democratica, uscita dalla costituzione – in modo regressivo, reazionario e lo fa intervenendo pesantemente sul sistema della conoscenza».
Nel suo intervento, il Magnifico Rettore dell’ateneo bolognese Ivano Dionigi, pur premettendo che l’80% dei principi del DDL possono essere condivisi e che le università con i propri statuti potranno agire in piena autonomia, ha rilevato tuttavia la situazione di tagli e di “cifre ballerine” che impediscono di elaborare un piano pluriennale certo. Questa situazione di incertezza – ha afferma– è aggravata dal contesto di credibilità pari a zero dei docenti e del personale accademico. Pertanto invita i docenti a fare una severa autocritica, in particolare sulla proliferazione di corsi in seguito alla riforma del 3+2, sulla improduttività scientifica di alcuni docenti e ricercatori, sui “docenti fantasma”, sui concorsi in cui a volte la selezione è “al rovescio”. Quanto alla situazione dei ricercatori – che viene definita “patologica” – il Rettore, ribadendo la posizione di solidarietà e sostegno assunta di recente dal Senato accademico, ha sostenuto che si debba innanzitutto moralizzare l’uso di queste risorse, che i posti flessibili si debbano relazionare alle assunzioni programmate e afferma che entro la fine dell’anno verranno banditi altri 22 concorsi.
Altro punto critico del decreto, secondo il Rettore Dionigi, è la totale mancanza di sostegno al diritto allo studio. Tuttavia, a fronte di altri atenei che hanno già programmato per il prossimo anno accademico un aumento cospicuo delle tasse universitarie e una diminuzione di finanziamenti per il diritto allo studio, il rettore ha informato che gli studenti di Bologna non pagheranno un euro in più di tasse e che non è stato loro tolto nulla dai sussidi al diritto allo studio.
L’Assessore regionale alla Scuola e Università Patrizio Bianchi, – ammettendo che la riforma universitaria del 2000 è stata un’occasione mancata di trasformazione dell’università dall’interno – ha condiviso il dissenso nei confronti di quella che ha chiamato “riforma Tremontini”.
Quanto alla situazione specifica dell’Emilia Romagna, ha proposto la riapertura della conferenza Regione-università – sottolineando come la piattaforma universitaria che va da Piacenza a Rimini debba ottimizzare le risorse al meglio e questo voglia dire «verificare l’offerta didattica, verificare le competenze esistenti, il funzionamento delle strutture di ricerca», e ha suggerito ai rettori di proporre degli accordi diretti col Ministero.
A margine degli interventi degli ospiti, alcuni dei presenti tra il pubblico hanno aggiunto osservazioni, dubbi e proposte. Tra questi, il prof. Leonardo Altieri (docente del dipartimento di Sociologia) ha notato, oltre l’estrema gravità dei tagli e il problema del precariato dei ricercatori, la mancanza assoluta di coerenza tra i principi della qualità della didattica e della meritocrazia affermati dal DDL e quella che dovrebbe essere la messa in pratica di questi principi.
Michele Filippini (della Rete Ricercatori Precari di Bologna), di fronte all’importanza e al ruolo indispensabile degli assegnisti e dei docenti a contratto, che sono un “pezzo di produzione del merito di questa università”, ha chiesto al rettore un tavolo di trattative grazie al quale si possa discutere di forme contrattuali più adeguate e dignitose per i precari.
Accorato l’appello della prof.ssa Maria Giuseppina Muzzarelli (docente di Storia medievale), la quale, esprimendo il proprio “imbarazzo generazionale”, ha invitato il rettore e le forze politiche di opposizione ad essere chiari, decisi, uniti e combattivi sui punti sui quali si intende far leva, esprimendo forti dubbi sulla possibilità di conciliare elementi tra loro contrastanti quali la qualificazione di molti, la ricerca pubblica e l’assenza di finanziamenti, ed esorta tutti ad una cosciente razionalizzazione delle risorse nell’ambito delle diverse sedi universitarie della regione.
Del medesimo tono l’intervento della prof.ssa Paola Monari, di Statistica, fortemente preoccupata per la situazione attuale, che ha invitato i docenti come lei a sostenere i ricercatori (che sono una ricchezza) e a non renderla vana assumendo l’incarico degli insegnamenti che potrebbero essere rifiutati in caso di protesta. A conclusione dell’assemblea, il rettore ha ribadito: «Preferisco sfidare il Governo piuttosto che sfilare» e l’onorevole Ghizzoni, ripetendo il forte dissenso che il PD esprimerà in Parlamento, ha chiesto dei toni più accesi anche da parte dei rettori e che vi sia un’azione convergente nei confronti della protesta dei ricercatori perché «la loro rabbia è l’unica cosa che il Governo teme».
lunedì 28 giugno 2010
La protesta dei Ricercatori universitari: a colloquio con i Ricercatori di Chimica
Era la fine dello scorso 2009 quando il ministro Gelmini presentò la “Riforma dell’Università” con il DDL 1905/2009 “Disegno di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio”, mettendo subito in allarme gli atenei italiani e, particolarmente, la categoria dei Ricercatori. Gli articoli oggetto del repentino e forte dissenso sono l’8 “Istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale” e, soprattutto, il 12 “Ricercatori a tempo determinato”. Ne riportiamo i punti salienti: “per svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo pieno e determinato. Il contratto regola altresì le modalità di svolgimento delle attività di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, cui sono riservate trecentocinquanta ore annue, e delle attività di ricerca” (art. 12 comma 1); “i contratti hanno durata triennale e possono essere rinnovati una sola volta per un ulteriore triennio previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte, sulla base di modalità, criteri e parametri definiti con decreto del Ministro” (art. 12 comma 4); “le università […] possono procedere alla chiamata diretta dei destinatari del secondo contratto triennale di cui al comma 4, i quali entro e non oltre la scadenza di tale contratto, conseguono l’abilitazione alle funzioni di professore associato, di cui all’art. 8. I chiamati, alla scadenza del secondo contratto, sono inquadrati nel ruolo dei professori associati” (art. 12 comma 6).
[Per la bozza completa del decreto e per le proposte di emendamento <http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/testi/34595_testi.htm]
A qualche mese di distanza dalle minacce di sospensione della didattica per il prossimo anno accademico, quando la polemica sembra oramai spenta o comunque non interessa più i media, abbiamo chiesto ai diretti interessati qualche delucidazione in merito a questo decreto e abbiamo trovato risposta alle nostre domande da un gruppo di Ricercatori (confermati e precari) del Dipartimento di Chimica “G. Ciamician” dell’Università di Bologna.
La nostra conversazione inizia con tre ricercatori confermati, Nelsi Zaccheroni, Sonia Melandri e Marco Montalti.
Prima di addentrarci nel merito delle norme che attualmente sono ancora in discussione parlamentare, cerchiamo di delineare qual è il ruolo del ricercatore universitario oggi, anche alla luce del DPR 382/1980 (art. 1 comma 5 e artt. 30-34) che istituì tale figura.
Un ricercatore, per prima cosa, dovrebbe fare ricerca, essere l’unione tra il mondo accademico e della ricerca, lo studioso che segue gli studenti e i ricercatori di laboratorio, si occupa dei temi di ricerca in maniera fattiva, è a diretto contatto sia con i docenti con più esperienza sia con gli studenti, una sorta di anello di congiunzione tra di essi, con la peculiarità di concentrarsi proprio sulla ricerca. Nel caso del ricercatore scientifico, il ricercatore è colui che praticamente va in laboratorio. Per quanto riguarda la didattica, l’attività del ricercatore dovrebbe limitarsi soltanto alla collaborazione, fornire un supporto. Nella pratica, però, la maggioranza dei ricercatori svolge sostanzialmente la stessa attività di un professore associato per numero di ore, esami, e insegnamenti. Esistono addirittura realtà in cui il carico didattico è maggiore per i ricercatori che per i docenti. Nonostante questa sia un’attività puramente volontaria, tuttavia si tratta di una sorta di obbligo non scritto poiché esiste proprio una necessità: vi sono corsi di laurea che si reggono per più del 40% sulla docenza dei ricercatori; tali corsi non potrebbero più sussistere se i ricercatori si rifiutassero di svolgere l’attività didattica. Ma non è solo una questione di lavoro volontario; infatti questa didattica non è riconosciuta a nessun livello, né economico, né ai fini della progressione di carriera. Ma come ci si può concentrare sulla ricerca avendo un carico didattico così pesante? Per quanto riguarda le nostre rappresentanze, la situazione al momento è questa: le rappresentanze dei ricercatori esistono solo in facoltà, per cui nell’ateneo di Bologna, ad esempio, ce ne sono 3; sono, dunque, una minoranza esigua in tutti gli organi legislativi dell’ateneo, essendo invece circa un terzo delle presenze universitarie rispetto al corpo docente a Bologna, altrove anche la metà circa.
La prospettiva del Ministro Gelmini – la quale ha affermato più volte che con questa riforma finalmente si svecchierà la classe dei docenti universitari -, a vostro parere, tenta di risolvere questi problemi? Come?
L’affermazione che questa riforma abbasserà l’età media dei docenti universitari è una grandissima bufala, perché, al contrario, questo DDL andrà incontro all’invecchiamento totale dell’università. È un decreto a costo zero, si ribadisce più volte nel testo del decreto che “dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”; una riforma non si può fare in nessun settore a costo zero, se no non è una riforma ma una manovra economica. Ecco, invece, qual è la vera prospettiva, il vero disegno di “riforma” del ministro: vi sono certi tipi di piani didattici che prevedono la presenza di docenti che stanno andando in pensione o che presto vi andranno; perciò in questi anni, se si vuole mantenere la medesima offerta didattica, i corsi devono essere in qualche modo tenuti da altri. Partendo dal presupposto che i professori sono già saturi, allora o si riordina tutto il sistema oppure i corsi “orfani” di docenti vengono assunti dai ricercatori. Bisogna scegliere tra la soppressione dei corsi e l’aumento delle nostre ore di didattica.
Il decreto prevede, però, che voi possiate ottenere un’abilitazione nazionale al ruolo di professore associato, indispensabile per una eventuale successiva chiamata diretta (art. 8). In base questo e all’introduzione dei ricercatori a tempo determinato, in che modo cambierebbero le prospettive per i ricercatori (sia quelli confermati che quelli precari)?
La realtà è questa: i posti non ci sono perciò a cosa serve dare l’abilitazione per qualcosa che non c’è? Una legge senza oneri per la finanza pubblica implica che non verranno creati altri posti. In più è una legge al risparmio, nel senso che l’ultima manovra finanziaria congela tutto fino al 2014; questo vuol dire che fino al 2014 non può essere bandito nulla (indipendentemente dalle persone che vanno in pensione), inoltre non viene maturata carriera, non vengono maturati scatti. Allo stesso tempo le persone vanno in pensione e chi resta dovrà tamponare il tamponabile sempre a costo zero. Ciò vuol dire che l’università diventa ancora più vecchia anziché ringiovanire! Finito questo blocco di 4/5 anni, in teoria dovrebbero iniziare a bandire i contratti per ricercatori a tempo determinato di 3 anni + 3, probabilmente cofinanziati dai gruppi di ricerca. Il punto è questo: un gruppo di ricerca deve avere una possibilità economica per prevedere il finanziamento anche parziale di uno stipendio per un ricercatore. E ciò sarà possibile solo per i gruppi di ricerca più grossi. Inoltre – ci chiediamo – quanti saranno disposti ad accettare una situazione di estrema precarietà senza alcun tipo di prospettiva futura garantita, neanche sul lungo periodo? Bisogna considerare che chi può ottenere un incarico di questo tipo è una persona mediamente di 30 anni, che a quell’età si impegna ad assumersi un ruolo da precario fino a 36/37 anni e poi? Possono tranquillamente mandarti a casa. Un altro grosso problema che aggrava questa situazione in Italia è che nel nostro paese la ricerca si fa quasi solamente all’università, per cui non è pensabile dire “io non favorisco la ricerca ma favorisco l’università”. Prendiamo come esempio il settore chimico: in Italia esistono solo pochissime industrie che fanno ricerca e molte se ne stanno andando (ad es. di recente la Glaxo di Verona [http://www.repubblica.it/economia/2010/02/14/news/glaxo_campus-2292771/]). In Italia è rarissima la possibilità di trasferirsi dall’università all’industria. Quindi o si va all’estero o si fa un altro lavoro. Si è costretti a scegliere di buttar via tutta la competenza che hai sviluppato, tutto lo studio che hai fatto, oppure di trasferirsi all’estero.
Per non parlare del fatto che questi ricercatori a tempo determinato avranno da subito un enorme carico didattico; mentre noi da giovani ci siamo avvicinati gradualmente alla didattica, prima affiancando i docenti nei corsi e negli esami avendo comunque il tempo per dedicarci alle nostre ricerche, queste nuove figure, con enormi carichi didattici, non faranno bene né la ricerca – per mancanza di tempo - e nemmeno la didattica a causa della loro inesperienza. Infine, le nuove leve che verranno assunte andranno a competere direttamente con noi ricercatori confermati nella chiamata diretta: infatti quando fra 6 anni circa una facoltà dovrà chiamare un professore associato, sceglie il ricercatore a tempo determinato già presente nell’organico oppure un confermato che altrimenti perderà? Si creerà una guerra tra poveri imbarazzante e spiacevole anche da un punto di vista umano (magari il ricercatore a tempo determinato è un tuo studente…). Insomma, questo decreto va nella direzione di favorire la didattica per coprire le lacune che lasceranno i molti pensionamenti degli ultimi e dei prossimi anni, e danneggia enormemente la ricerca, perché non c’è solo un taglio dei fondi ma anche del tempo. È soltanto una soluzione momentanea e tra 6 anni il problema si riproporrà.
Che cosa pensate della proposta di denominare i ricercatori “professori di terza fascia”?
La proposta del professore di terza fascia – fatta già dalla Moratti – è offensiva. Tra l’altro è una cosa che in qualche modo esiste già, perché se un ricercatore tiene un corso, può chiedere di essere riconosciuto come “professore aggregato”. Che una legge costituisca una terza fascia per bonificare questa situazione per cui un ricercatore non potrebbe fare didattica e allora viene chiamato “professore di terza fascia” a costo zero, vuol dire che io faccio lo stesso lavoro del professore di seconda fascia e ma sono di terza. Sei comunque un docente di “serie B”; non è tanto una questione di stipendio ma proprio di status. Non cambierebbe nulla neanche in merito alle rappresentanze. Si tratta, a nostro parere, di una presa in giro offensiva. Inoltre, con la messa in esaurimento, non avremmo diritto a nessuna rappresentanza. Quindi funzionerebbe così: sei assunto, fai ricerca, fai didattica, puoi essere sfruttato benissimo come adesso, però adesso tutti lavoriamo perché abbiamo una prospettiva, per una costruzione di un futuro; dopodiché il futuro ti viene tolto, però ti viene chiesto di continuare a fare la stessa cosa. Non è una cosa accettabile. Bisogna dire, tuttavia, che
Alcuni sono a favore di questa “etichetta” consolatoria, probabilmente perché ritengono che, cambiando nome, possa aumentare il rispetto dei colleghi oppure si accontentano perché preferiscono non essere valutati. Invece noi come la maggior parte dei ricercatori non vogliamo un semplice bollino di terza fascia. Chiediamo che ci sia data una chance, perché siamo persone che hanno investito parecchio nella ricerca e nella didattica e ritengono di aver diritto ad essere valutati in tempi accettabili e a ritmi certi affinché ai meritevoli venga permesso il passaggio di ruolo.
Entriamo ora nel merito della protesta. Anche voi vi asterrete dall’attività didattica o attuerete forme diverse di protesta?
A Bologna ci siamo mobilitati da diversi mesi, abbiamo avuto diverse assemblee, anche il Rettore è intervenuto alla prima assemblea; in quella sede si è fatto il punto della situazione, è stata redatta un’indicazione di un documento finché i vari ricercatori delle diverse facoltà hanno portato avanti un documento condiviso in cui esprimevamo il disagio e la resistenza rispetto ai provvedimenti di questa legge e l’idea di attuare delle forme di protesta, quali quella di non dare la disponibilità all’attività didattica per il prossimo anno accademico. La risposta delle facoltà è stata abbastanza buona, non tutte le facoltà ancora si sono riunite e hanno dato una risposta, però nel frattempo i nostri documenti sono stati portati in Senato accademico, il quale ha redatto una mozione in cui appoggia la nostra protesta (cosa che anche il CRUI aveva fatto) e chiede che vengano prese in considerazione le nostre richieste. Un altro appoggio è venuto dalla Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Teconologie (con.Scienze www.conscienze.eu ) che, oltre ad appoggiare con una mozione la nostra protesta e le nostre richieste, sottolinea come in Italia la ricerca scientifica abbia luogo prevalentemente all’interno delle università e degli enti di ricerca pubblici, mantenendo un alto livello nonostante la continua e distruttiva diminuzione delle risorse e lo scarso ricambio di personale; precisa inoltre che non sarà possibile mantenere tale livello, in una situazione che nei fatti spinge i giovani brillanti ad andare all’estero e compromette il vitale ricambio generazionale reso necessario dall’elevatissimo numero di pensionamenti di questi e dei prossimi anni. Quanto alle modalità di protesta, avremmo potuto rifiutare immediatamente l’assunzione di incarichi didattici da subito; la differenza fondamentale della posizione di Bologna rispetto ad altre università è che i ricercatori di Bologna, per il momento, accettano gli incarichi e si riservano di rifiutarli più tardi, altre università, invece, decidendo di rifiutarli subito, non permetteranno l’attivazione di alcuni corsi. Ciò dipende dal fatto che aspettiamo di vedere il decreto per come uscirà nella sua veste definitiva. Di forme di protesta alternative non ce ne sono. L’unica protesta possibile è la sospensione della didattica. Alcuni atenei hanno deciso che subito le cose allo stato attuale erano inaccettabili, per cui non hanno dato la disponibilità. L’ateneo di Bologna ha adottato un’altra linea e la maggioranza ha votato per non ritirare la disponibilità immediatamente, ma di aspettare la conclusione dell’iter della legge, visto che c’è una protesta in atto, e di vedere la risposta del governo. Abbiamo deciso così in maniera più che ottimistica, pensando che se il governo risponde in maniera positiva alle nostre proteste e si giunge ad un accordo, i corsi sono comunque stati attivati e gli studenti potranno usufruirne (cosa impossibile se avessimo optato per il ritiro immediato della disponibilità). Il messaggio che vogliamo far passare è: noi vogliamo il dialogo e, se ci ascolterete, andremo avanti normalmente con la didattica. Se poi non dovesse essere così, allora all’inizio del nuovo anno accademico, nel momento in cui i corsi dovranno partire, questi verranno fatti tacere per l’indisponibilità dei ricercatori, e forse questa modalità di protesta può risultare ancora più forte. Come forma di dissenso è l’unica per farsi sentire, perché il resto del lavoro del ricercatore è un lavoro che non ha un impatto immediato, diretto sulla popolazione, per cui , ad esempio, se io non vado in laboratorio a fare ricerca, creo un diretto disagio a pochi. Lo scopo è anche quello di dimostrare che senza i ricercatori l’università italiana non può funzionare, salta tutto il sistema, condizione che non dovrebbe esistere perché esistono delle figure preposte alla didattica, e diventa paradossale che poi proprio il ricercatore che svolge quel ruolo venga privato della possibilità di diventare professore.
I ricercatori di Bologna quali proposte hanno avanzato?
Noi ricercatori di Bologna, di fronte ad un decreto che mette in esaurimento il nostro ruolo, non riconosce il lavoro effettivamente svolto da tempo (e che presumibilmente continuerà ad essere svolto nei prossimi anni) nella didattica, ci esclude dalle commissioni per i concorsi universitari e dalla rappresentanza negli organi collegiali, per difendere la dignità della ricerca e della figura accademica del ricercatore, vogliamo evidenziare questi punti critici: 1) nonostante il testo emendato del DDL preveda un percorso identico per i ricercatori a tempo indeterminato e le nuove figure dei ricercatori a tempo determinato nella procedura di reclutamento dei professori di seconda fascia, si prospettano situazioni potenzialmente conflittuali al momento delle chiamate dirette, che prevedibilmente privilegerebbero i ricercatori a tempo determinato, al fine di scongiurarne la fuga dalle università; 2) il decreto vincola le risorse alla provenienza dei candidati, suddividendole in quote riservate al personale interno all’Ateneo e quote riservate a personale esterno, approccio per noi iniquo e ingiustificato, in quanto i criteri adottati nelle procedure di selezione dovrebbero essere basati unicamente su valutazioni del merito; 3) inoltre, perseguendo l’obiettivo della riforma a costo zero, non vi sono le risorse economiche necessarie a garantire a tutti i ricercatori, in tempi accettabili e a ritmi certi, il diritto ad essere valutati, permettendo ai meritevoli il passaggio di ruolo; 4) infine, i nuovi meccanismi proposti nel DDL portano a significative riduzioni stipendiali per i ricercatori a tempo indeterminato.
Dopo aver sentito il parere dei ricercatori confermati, veniamo invitati in laboratorio dove ci aspettano Matteo Amelia, assegnista di ricerca, e Monica Semeraro, dottoranda. Vogliamo conoscere anche il loro punto di vista su questo decreto.
Le proteste nei confronti del DDL Gelmini sono portate avanti soprattutto dai ricercatori confermati per i motivi di cui abbiamo parlato prima. Quanto a voi precari, invece, ritenete che questo decreto produrrà dei miglioramenti della vostra situazione?
Se guardiamo alla nostra situazione, probabilmente non cambia molto: zero speranze avevamo prima, altrettante ne abbiamo adesso. La cosa che, però, a nostro parere aggrava l’attuale situazione è che aumenteranno gli anni di precariato. Se prima, infatti, passavano circa 8 anni tra dottorato e assegni di ricerca, con il decreto, attraverso l’introduzione dei contratti a tempo determinato di 3 anni + 3 rinnovabili, si arriva a quasi a 13 anni di precariato, dopo i quali ti si può mandare tranquillamente a casa. Non c’è nessun tipo di garanzia perché con questa legge non vengono investite risorse, che anzi vanno sempre diminuendo. Riformare un sistema può andare anche bene, l’università va certo riformata, ma con questo decreto l’università non diventa meritocratica, come si vuol far credere. Attualmente il merito è solo “sulla carta”, in quanto spesso i concorsi non sono rigidi, ma dopo questo decreto la qualità e il valore degli studiosi sarà considerato ancor meno! Basti pensare al fatto che, per ottenere l’abilitazione a professore di seconda fascia, non viene effettuata alcuna valutazione comparativa; inoltre ci sarà la chiamata diretta da parte delle facoltà… ripeto, è vero che i concorsi per come si svolgono ora non si basano sempre sul merito, ma con la chiamata diretta sarà completamente impossibile! Anzi, in qualche modo si legalizza l’andazzo che c’è adesso. Crediamo che il concorso serva, ma che vada ancora più regolamentato perché adesso non vi sono dei criteri oggettivi di valutazione. C’è invece chi dice “guardiamo l’estero, dove c’è la chiamata diretta”, però probabilmente in Italia non abbiamo la “cultura” per poter agire in questa maniera. All’estero è presente, sì, la chiamata diretta come modalità di reclutamento, ma gli studiosi fanno più esperienza rispetto agli italiani, studiano con diverse persone e in posti diversi, hanno modo di confrontarsi con molte realtà. In Italia, invece, devi laurearti, fare il dottorato di ricerca, fare l’assegnista e il ricercatore sempre con lo stesso professore, sempre nello stesso posto; anzi, se vai via, rischi il tuo posto, quando invece l’accumulare esperienze diverse dovrebbe essere un valore aggiunto. In questo modo non può esserci meritocrazia, ma solo sudditanza. Per quanto riguarda la protesta dei ricercatori confermati, riteniamo assurdo che si voglia far diventare a tempo determinato, precario, un ruolo che è fondamentale all’interno dell’università, che è per eccellenza a lungo termine. Inoltre il ricercatore dovrebbe entrare nell’età in cui è più produttivo scientificamente, in cui possa dedicare più tempo al lavoro e dovrebbe avere la tranquillità di fare il proprio lavoro, cosa che è già difficile ora, lo sarà ancor di più dopo questa riforma.
È paradossale, ma, una volta introdotta la figura del ricercatore a tempo determinato, i precari come voi nella chiamata diretta potrebbero concorrere con i ricercatori confermati.
Anzi addirittura potremmo passar davanti a loro. Questo creerà un attrito enorme e situazioni difficili proprio da un punto di vista umano tra persone che per anni hanno lavorato insieme; questo nel lavoro di ricerca, che dovrebbe essere un lavoro di squadra e di profonda collaborazione, è deleterio. Per non parlare del problema dei finanziamenti per questi contratti; si tratta di un aspetto molto oscuro nell’attuale testo di legge.
Però si potrebbe dire – soprattutto a studiosi di ambito scientifico – “Sicuramente troverete anche in Italia lavoro nel privato, in aziende che fanno anche ricerca”.
La questione non è così semplice, perché la ricerca in Italia si fa per la stragrande maggioranza nell’ambito dell’università; le aziende che la fanno sono pochissime, alcune importanti hanno chiuso di recente, quindi anche al di fuori dell’ambito accademico per persone qualificate è difficile inserirsi. Anzi, per un posto di lavoro (non da ricercatore) in un’azienda del nostro settore, ad una persona titolata e qualificata (con dottorato, esperienza all’estero ed esperienza di ricerca) viene preferito un neolaureato perché può essere inquadrato in un profilo più basso. Insomma, la nostra competenza acquisita con anni di studio, di ricerca e numerosi sacrifici non è riciclabile.
Tornando al discorso delle risorse da investire nella ricerca, si ha l’impressione che il filo rosso che percorre il testo della legge sia che tutto deve avvenire senza oneri per la finanza pubblica.
È così da decenni, qualunque riforma o legge che riguarda l’università è stata fatta seguendo questo principio. Questo governo si sta impegnando con particolare zelo nell’operazione di dissanguamento della ricerca e dell’istruzione in genere, ma il problema è che anche gli altri governi non hanno mai attuato delle politiche forti e di finanziamento nei confronti dell’università. Poi c’è da considerare anche questo: siccome si parla di dare le risorse ai centri di eccellenza, bisogna vedere anche in base a quali criteri viene valutata l’università. Se il numero di laureati diventa un criterio importante per valutare la qualità di un ateneo e, di conseguenza, per ottenere anche i fondi, allora il passo verso il “diplomificio” è brevissimo. Ne va proprio della qualità dell’istruzione di base che, secondo noi, al momento è a livelli molto alti rispetto all’estero. Noi abbiamo studiato anche negli Stati Uniti e abbiamo constatato che, per quanto riguarda la preparazione di base, eravamo ad un livello superiore. I ricercatori italiani, nonostante tutto, sono bravi perché riescono a fare il proprio lavoro e a metterci ancora passione nonostante tutte le difficoltà; invece all’estero non solo hanno i mezzi, ma sanno anche investire il loro tempo in qualcosa che otterranno sicuramente, vengono comunque pagati molto di più anche quando sono precari rispetto a noi e, in generale, godono di maggiore considerazione. Per dare prospettive, dunque, bisogna dare più risorse all’università. È vero che ci sono molti sprechi, però vanno individuati con attenzione e, soprattutto, vanno ascoltate le persone che nell’università ci lavorano; si tratta di una realtà troppo complessa, dall’esterno non si riesce ad avere una percezione giusta. Noi ci sentiamo sottopagati, ma dobbiamo ammettere che c’è gente nell’università che per quello che fa viene pagata sin troppo. Forse come prima cosa bisognerebbe colpire quelle situazioni che sono sotto gli occhi di tutti: il docente che a ricevimento non c’è mai o che non fa le ore di didattica che dovrebbe, l’avvocato o il medico che svolge parallelamente all’incarico universitario la libera professione. Ma questa critica non dovrebbe nemmeno venire dall’esterno, bensì dalle persone che fanno il proprio lavoro che sono già all’interno dell’università. Evidentemente non c’è questa volontà. Noi che siamo in una situazione precaria possiamo solo esprimere il nostro dissenso, ma ci sarebbe bisogno di qualcuno che agisse efficacemente. Purtroppo piace mantenere questa condizione di subordinazione, di sudditanza psicologica; i docenti non dovrebbero esercitare alcun potere, ma se lo sono creati nel tempo e non vogliono perderlo, perciò è difficile che una riforma parta dall’interno dell’università perché proprio coloro che avrebbero il potere, i mezzi per cambiare le cose, non vogliono perdere questa situazione di privilegio che si sono creata col tempo. Dispiace, poi, vedere che quando si parla pubblicamente di università, la discussione venga affidata a persone che non conoscono affatto questo mondo, che non vi sono dentro, sia da una parte politica che dall’altra. Solo gli addetti ai lavori possono capire e far capire la situazione reale, perché è un mondo talmente complesso, che sulla carta funziona in un modo ma nella pratica in un altro, che se non ci stai dentro fai fatica a capirne i meccanismi.
Dopo più di un’ora di conversazione appassionata, lasciamo andare i ricercatori al proprio lavoro. Nel concludere il resoconto di questo colloquio, ci piace sottolineare come la menzione dello stipendio sia stata, nelle dichiarazioni degli intervistati, quasi marginale, frequenza inversamente proporzionale all’espressione “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” che segna ogni articolo di questo decreto.
Intervista a cura di Emanuela De Luca e Bijoy M. Trentin
[Per la bozza completa del decreto e per le proposte di emendamento <http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/testi/34595_testi.htm]
A qualche mese di distanza dalle minacce di sospensione della didattica per il prossimo anno accademico, quando la polemica sembra oramai spenta o comunque non interessa più i media, abbiamo chiesto ai diretti interessati qualche delucidazione in merito a questo decreto e abbiamo trovato risposta alle nostre domande da un gruppo di Ricercatori (confermati e precari) del Dipartimento di Chimica “G. Ciamician” dell’Università di Bologna.
La nostra conversazione inizia con tre ricercatori confermati, Nelsi Zaccheroni, Sonia Melandri e Marco Montalti.
Prima di addentrarci nel merito delle norme che attualmente sono ancora in discussione parlamentare, cerchiamo di delineare qual è il ruolo del ricercatore universitario oggi, anche alla luce del DPR 382/1980 (art. 1 comma 5 e artt. 30-34) che istituì tale figura.
Un ricercatore, per prima cosa, dovrebbe fare ricerca, essere l’unione tra il mondo accademico e della ricerca, lo studioso che segue gli studenti e i ricercatori di laboratorio, si occupa dei temi di ricerca in maniera fattiva, è a diretto contatto sia con i docenti con più esperienza sia con gli studenti, una sorta di anello di congiunzione tra di essi, con la peculiarità di concentrarsi proprio sulla ricerca. Nel caso del ricercatore scientifico, il ricercatore è colui che praticamente va in laboratorio. Per quanto riguarda la didattica, l’attività del ricercatore dovrebbe limitarsi soltanto alla collaborazione, fornire un supporto. Nella pratica, però, la maggioranza dei ricercatori svolge sostanzialmente la stessa attività di un professore associato per numero di ore, esami, e insegnamenti. Esistono addirittura realtà in cui il carico didattico è maggiore per i ricercatori che per i docenti. Nonostante questa sia un’attività puramente volontaria, tuttavia si tratta di una sorta di obbligo non scritto poiché esiste proprio una necessità: vi sono corsi di laurea che si reggono per più del 40% sulla docenza dei ricercatori; tali corsi non potrebbero più sussistere se i ricercatori si rifiutassero di svolgere l’attività didattica. Ma non è solo una questione di lavoro volontario; infatti questa didattica non è riconosciuta a nessun livello, né economico, né ai fini della progressione di carriera. Ma come ci si può concentrare sulla ricerca avendo un carico didattico così pesante? Per quanto riguarda le nostre rappresentanze, la situazione al momento è questa: le rappresentanze dei ricercatori esistono solo in facoltà, per cui nell’ateneo di Bologna, ad esempio, ce ne sono 3; sono, dunque, una minoranza esigua in tutti gli organi legislativi dell’ateneo, essendo invece circa un terzo delle presenze universitarie rispetto al corpo docente a Bologna, altrove anche la metà circa.
La prospettiva del Ministro Gelmini – la quale ha affermato più volte che con questa riforma finalmente si svecchierà la classe dei docenti universitari -, a vostro parere, tenta di risolvere questi problemi? Come?
L’affermazione che questa riforma abbasserà l’età media dei docenti universitari è una grandissima bufala, perché, al contrario, questo DDL andrà incontro all’invecchiamento totale dell’università. È un decreto a costo zero, si ribadisce più volte nel testo del decreto che “dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”; una riforma non si può fare in nessun settore a costo zero, se no non è una riforma ma una manovra economica. Ecco, invece, qual è la vera prospettiva, il vero disegno di “riforma” del ministro: vi sono certi tipi di piani didattici che prevedono la presenza di docenti che stanno andando in pensione o che presto vi andranno; perciò in questi anni, se si vuole mantenere la medesima offerta didattica, i corsi devono essere in qualche modo tenuti da altri. Partendo dal presupposto che i professori sono già saturi, allora o si riordina tutto il sistema oppure i corsi “orfani” di docenti vengono assunti dai ricercatori. Bisogna scegliere tra la soppressione dei corsi e l’aumento delle nostre ore di didattica.
Il decreto prevede, però, che voi possiate ottenere un’abilitazione nazionale al ruolo di professore associato, indispensabile per una eventuale successiva chiamata diretta (art. 8). In base questo e all’introduzione dei ricercatori a tempo determinato, in che modo cambierebbero le prospettive per i ricercatori (sia quelli confermati che quelli precari)?
La realtà è questa: i posti non ci sono perciò a cosa serve dare l’abilitazione per qualcosa che non c’è? Una legge senza oneri per la finanza pubblica implica che non verranno creati altri posti. In più è una legge al risparmio, nel senso che l’ultima manovra finanziaria congela tutto fino al 2014; questo vuol dire che fino al 2014 non può essere bandito nulla (indipendentemente dalle persone che vanno in pensione), inoltre non viene maturata carriera, non vengono maturati scatti. Allo stesso tempo le persone vanno in pensione e chi resta dovrà tamponare il tamponabile sempre a costo zero. Ciò vuol dire che l’università diventa ancora più vecchia anziché ringiovanire! Finito questo blocco di 4/5 anni, in teoria dovrebbero iniziare a bandire i contratti per ricercatori a tempo determinato di 3 anni + 3, probabilmente cofinanziati dai gruppi di ricerca. Il punto è questo: un gruppo di ricerca deve avere una possibilità economica per prevedere il finanziamento anche parziale di uno stipendio per un ricercatore. E ciò sarà possibile solo per i gruppi di ricerca più grossi. Inoltre – ci chiediamo – quanti saranno disposti ad accettare una situazione di estrema precarietà senza alcun tipo di prospettiva futura garantita, neanche sul lungo periodo? Bisogna considerare che chi può ottenere un incarico di questo tipo è una persona mediamente di 30 anni, che a quell’età si impegna ad assumersi un ruolo da precario fino a 36/37 anni e poi? Possono tranquillamente mandarti a casa. Un altro grosso problema che aggrava questa situazione in Italia è che nel nostro paese la ricerca si fa quasi solamente all’università, per cui non è pensabile dire “io non favorisco la ricerca ma favorisco l’università”. Prendiamo come esempio il settore chimico: in Italia esistono solo pochissime industrie che fanno ricerca e molte se ne stanno andando (ad es. di recente la Glaxo di Verona [http://www.repubblica.it/economia/2010/02/14/news/glaxo_campus-2292771/]). In Italia è rarissima la possibilità di trasferirsi dall’università all’industria. Quindi o si va all’estero o si fa un altro lavoro. Si è costretti a scegliere di buttar via tutta la competenza che hai sviluppato, tutto lo studio che hai fatto, oppure di trasferirsi all’estero.
Per non parlare del fatto che questi ricercatori a tempo determinato avranno da subito un enorme carico didattico; mentre noi da giovani ci siamo avvicinati gradualmente alla didattica, prima affiancando i docenti nei corsi e negli esami avendo comunque il tempo per dedicarci alle nostre ricerche, queste nuove figure, con enormi carichi didattici, non faranno bene né la ricerca – per mancanza di tempo - e nemmeno la didattica a causa della loro inesperienza. Infine, le nuove leve che verranno assunte andranno a competere direttamente con noi ricercatori confermati nella chiamata diretta: infatti quando fra 6 anni circa una facoltà dovrà chiamare un professore associato, sceglie il ricercatore a tempo determinato già presente nell’organico oppure un confermato che altrimenti perderà? Si creerà una guerra tra poveri imbarazzante e spiacevole anche da un punto di vista umano (magari il ricercatore a tempo determinato è un tuo studente…). Insomma, questo decreto va nella direzione di favorire la didattica per coprire le lacune che lasceranno i molti pensionamenti degli ultimi e dei prossimi anni, e danneggia enormemente la ricerca, perché non c’è solo un taglio dei fondi ma anche del tempo. È soltanto una soluzione momentanea e tra 6 anni il problema si riproporrà.
Che cosa pensate della proposta di denominare i ricercatori “professori di terza fascia”?
La proposta del professore di terza fascia – fatta già dalla Moratti – è offensiva. Tra l’altro è una cosa che in qualche modo esiste già, perché se un ricercatore tiene un corso, può chiedere di essere riconosciuto come “professore aggregato”. Che una legge costituisca una terza fascia per bonificare questa situazione per cui un ricercatore non potrebbe fare didattica e allora viene chiamato “professore di terza fascia” a costo zero, vuol dire che io faccio lo stesso lavoro del professore di seconda fascia e ma sono di terza. Sei comunque un docente di “serie B”; non è tanto una questione di stipendio ma proprio di status. Non cambierebbe nulla neanche in merito alle rappresentanze. Si tratta, a nostro parere, di una presa in giro offensiva. Inoltre, con la messa in esaurimento, non avremmo diritto a nessuna rappresentanza. Quindi funzionerebbe così: sei assunto, fai ricerca, fai didattica, puoi essere sfruttato benissimo come adesso, però adesso tutti lavoriamo perché abbiamo una prospettiva, per una costruzione di un futuro; dopodiché il futuro ti viene tolto, però ti viene chiesto di continuare a fare la stessa cosa. Non è una cosa accettabile. Bisogna dire, tuttavia, che
Alcuni sono a favore di questa “etichetta” consolatoria, probabilmente perché ritengono che, cambiando nome, possa aumentare il rispetto dei colleghi oppure si accontentano perché preferiscono non essere valutati. Invece noi come la maggior parte dei ricercatori non vogliamo un semplice bollino di terza fascia. Chiediamo che ci sia data una chance, perché siamo persone che hanno investito parecchio nella ricerca e nella didattica e ritengono di aver diritto ad essere valutati in tempi accettabili e a ritmi certi affinché ai meritevoli venga permesso il passaggio di ruolo.
Entriamo ora nel merito della protesta. Anche voi vi asterrete dall’attività didattica o attuerete forme diverse di protesta?
A Bologna ci siamo mobilitati da diversi mesi, abbiamo avuto diverse assemblee, anche il Rettore è intervenuto alla prima assemblea; in quella sede si è fatto il punto della situazione, è stata redatta un’indicazione di un documento finché i vari ricercatori delle diverse facoltà hanno portato avanti un documento condiviso in cui esprimevamo il disagio e la resistenza rispetto ai provvedimenti di questa legge e l’idea di attuare delle forme di protesta, quali quella di non dare la disponibilità all’attività didattica per il prossimo anno accademico. La risposta delle facoltà è stata abbastanza buona, non tutte le facoltà ancora si sono riunite e hanno dato una risposta, però nel frattempo i nostri documenti sono stati portati in Senato accademico, il quale ha redatto una mozione in cui appoggia la nostra protesta (cosa che anche il CRUI aveva fatto) e chiede che vengano prese in considerazione le nostre richieste. Un altro appoggio è venuto dalla Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Teconologie (con.Scienze www.conscienze.eu ) che, oltre ad appoggiare con una mozione la nostra protesta e le nostre richieste, sottolinea come in Italia la ricerca scientifica abbia luogo prevalentemente all’interno delle università e degli enti di ricerca pubblici, mantenendo un alto livello nonostante la continua e distruttiva diminuzione delle risorse e lo scarso ricambio di personale; precisa inoltre che non sarà possibile mantenere tale livello, in una situazione che nei fatti spinge i giovani brillanti ad andare all’estero e compromette il vitale ricambio generazionale reso necessario dall’elevatissimo numero di pensionamenti di questi e dei prossimi anni. Quanto alle modalità di protesta, avremmo potuto rifiutare immediatamente l’assunzione di incarichi didattici da subito; la differenza fondamentale della posizione di Bologna rispetto ad altre università è che i ricercatori di Bologna, per il momento, accettano gli incarichi e si riservano di rifiutarli più tardi, altre università, invece, decidendo di rifiutarli subito, non permetteranno l’attivazione di alcuni corsi. Ciò dipende dal fatto che aspettiamo di vedere il decreto per come uscirà nella sua veste definitiva. Di forme di protesta alternative non ce ne sono. L’unica protesta possibile è la sospensione della didattica. Alcuni atenei hanno deciso che subito le cose allo stato attuale erano inaccettabili, per cui non hanno dato la disponibilità. L’ateneo di Bologna ha adottato un’altra linea e la maggioranza ha votato per non ritirare la disponibilità immediatamente, ma di aspettare la conclusione dell’iter della legge, visto che c’è una protesta in atto, e di vedere la risposta del governo. Abbiamo deciso così in maniera più che ottimistica, pensando che se il governo risponde in maniera positiva alle nostre proteste e si giunge ad un accordo, i corsi sono comunque stati attivati e gli studenti potranno usufruirne (cosa impossibile se avessimo optato per il ritiro immediato della disponibilità). Il messaggio che vogliamo far passare è: noi vogliamo il dialogo e, se ci ascolterete, andremo avanti normalmente con la didattica. Se poi non dovesse essere così, allora all’inizio del nuovo anno accademico, nel momento in cui i corsi dovranno partire, questi verranno fatti tacere per l’indisponibilità dei ricercatori, e forse questa modalità di protesta può risultare ancora più forte. Come forma di dissenso è l’unica per farsi sentire, perché il resto del lavoro del ricercatore è un lavoro che non ha un impatto immediato, diretto sulla popolazione, per cui , ad esempio, se io non vado in laboratorio a fare ricerca, creo un diretto disagio a pochi. Lo scopo è anche quello di dimostrare che senza i ricercatori l’università italiana non può funzionare, salta tutto il sistema, condizione che non dovrebbe esistere perché esistono delle figure preposte alla didattica, e diventa paradossale che poi proprio il ricercatore che svolge quel ruolo venga privato della possibilità di diventare professore.
I ricercatori di Bologna quali proposte hanno avanzato?
Noi ricercatori di Bologna, di fronte ad un decreto che mette in esaurimento il nostro ruolo, non riconosce il lavoro effettivamente svolto da tempo (e che presumibilmente continuerà ad essere svolto nei prossimi anni) nella didattica, ci esclude dalle commissioni per i concorsi universitari e dalla rappresentanza negli organi collegiali, per difendere la dignità della ricerca e della figura accademica del ricercatore, vogliamo evidenziare questi punti critici: 1) nonostante il testo emendato del DDL preveda un percorso identico per i ricercatori a tempo indeterminato e le nuove figure dei ricercatori a tempo determinato nella procedura di reclutamento dei professori di seconda fascia, si prospettano situazioni potenzialmente conflittuali al momento delle chiamate dirette, che prevedibilmente privilegerebbero i ricercatori a tempo determinato, al fine di scongiurarne la fuga dalle università; 2) il decreto vincola le risorse alla provenienza dei candidati, suddividendole in quote riservate al personale interno all’Ateneo e quote riservate a personale esterno, approccio per noi iniquo e ingiustificato, in quanto i criteri adottati nelle procedure di selezione dovrebbero essere basati unicamente su valutazioni del merito; 3) inoltre, perseguendo l’obiettivo della riforma a costo zero, non vi sono le risorse economiche necessarie a garantire a tutti i ricercatori, in tempi accettabili e a ritmi certi, il diritto ad essere valutati, permettendo ai meritevoli il passaggio di ruolo; 4) infine, i nuovi meccanismi proposti nel DDL portano a significative riduzioni stipendiali per i ricercatori a tempo indeterminato.
Dopo aver sentito il parere dei ricercatori confermati, veniamo invitati in laboratorio dove ci aspettano Matteo Amelia, assegnista di ricerca, e Monica Semeraro, dottoranda. Vogliamo conoscere anche il loro punto di vista su questo decreto.
Le proteste nei confronti del DDL Gelmini sono portate avanti soprattutto dai ricercatori confermati per i motivi di cui abbiamo parlato prima. Quanto a voi precari, invece, ritenete che questo decreto produrrà dei miglioramenti della vostra situazione?
Se guardiamo alla nostra situazione, probabilmente non cambia molto: zero speranze avevamo prima, altrettante ne abbiamo adesso. La cosa che, però, a nostro parere aggrava l’attuale situazione è che aumenteranno gli anni di precariato. Se prima, infatti, passavano circa 8 anni tra dottorato e assegni di ricerca, con il decreto, attraverso l’introduzione dei contratti a tempo determinato di 3 anni + 3 rinnovabili, si arriva a quasi a 13 anni di precariato, dopo i quali ti si può mandare tranquillamente a casa. Non c’è nessun tipo di garanzia perché con questa legge non vengono investite risorse, che anzi vanno sempre diminuendo. Riformare un sistema può andare anche bene, l’università va certo riformata, ma con questo decreto l’università non diventa meritocratica, come si vuol far credere. Attualmente il merito è solo “sulla carta”, in quanto spesso i concorsi non sono rigidi, ma dopo questo decreto la qualità e il valore degli studiosi sarà considerato ancor meno! Basti pensare al fatto che, per ottenere l’abilitazione a professore di seconda fascia, non viene effettuata alcuna valutazione comparativa; inoltre ci sarà la chiamata diretta da parte delle facoltà… ripeto, è vero che i concorsi per come si svolgono ora non si basano sempre sul merito, ma con la chiamata diretta sarà completamente impossibile! Anzi, in qualche modo si legalizza l’andazzo che c’è adesso. Crediamo che il concorso serva, ma che vada ancora più regolamentato perché adesso non vi sono dei criteri oggettivi di valutazione. C’è invece chi dice “guardiamo l’estero, dove c’è la chiamata diretta”, però probabilmente in Italia non abbiamo la “cultura” per poter agire in questa maniera. All’estero è presente, sì, la chiamata diretta come modalità di reclutamento, ma gli studiosi fanno più esperienza rispetto agli italiani, studiano con diverse persone e in posti diversi, hanno modo di confrontarsi con molte realtà. In Italia, invece, devi laurearti, fare il dottorato di ricerca, fare l’assegnista e il ricercatore sempre con lo stesso professore, sempre nello stesso posto; anzi, se vai via, rischi il tuo posto, quando invece l’accumulare esperienze diverse dovrebbe essere un valore aggiunto. In questo modo non può esserci meritocrazia, ma solo sudditanza. Per quanto riguarda la protesta dei ricercatori confermati, riteniamo assurdo che si voglia far diventare a tempo determinato, precario, un ruolo che è fondamentale all’interno dell’università, che è per eccellenza a lungo termine. Inoltre il ricercatore dovrebbe entrare nell’età in cui è più produttivo scientificamente, in cui possa dedicare più tempo al lavoro e dovrebbe avere la tranquillità di fare il proprio lavoro, cosa che è già difficile ora, lo sarà ancor di più dopo questa riforma.
È paradossale, ma, una volta introdotta la figura del ricercatore a tempo determinato, i precari come voi nella chiamata diretta potrebbero concorrere con i ricercatori confermati.
Anzi addirittura potremmo passar davanti a loro. Questo creerà un attrito enorme e situazioni difficili proprio da un punto di vista umano tra persone che per anni hanno lavorato insieme; questo nel lavoro di ricerca, che dovrebbe essere un lavoro di squadra e di profonda collaborazione, è deleterio. Per non parlare del problema dei finanziamenti per questi contratti; si tratta di un aspetto molto oscuro nell’attuale testo di legge.
Però si potrebbe dire – soprattutto a studiosi di ambito scientifico – “Sicuramente troverete anche in Italia lavoro nel privato, in aziende che fanno anche ricerca”.
La questione non è così semplice, perché la ricerca in Italia si fa per la stragrande maggioranza nell’ambito dell’università; le aziende che la fanno sono pochissime, alcune importanti hanno chiuso di recente, quindi anche al di fuori dell’ambito accademico per persone qualificate è difficile inserirsi. Anzi, per un posto di lavoro (non da ricercatore) in un’azienda del nostro settore, ad una persona titolata e qualificata (con dottorato, esperienza all’estero ed esperienza di ricerca) viene preferito un neolaureato perché può essere inquadrato in un profilo più basso. Insomma, la nostra competenza acquisita con anni di studio, di ricerca e numerosi sacrifici non è riciclabile.
Tornando al discorso delle risorse da investire nella ricerca, si ha l’impressione che il filo rosso che percorre il testo della legge sia che tutto deve avvenire senza oneri per la finanza pubblica.
È così da decenni, qualunque riforma o legge che riguarda l’università è stata fatta seguendo questo principio. Questo governo si sta impegnando con particolare zelo nell’operazione di dissanguamento della ricerca e dell’istruzione in genere, ma il problema è che anche gli altri governi non hanno mai attuato delle politiche forti e di finanziamento nei confronti dell’università. Poi c’è da considerare anche questo: siccome si parla di dare le risorse ai centri di eccellenza, bisogna vedere anche in base a quali criteri viene valutata l’università. Se il numero di laureati diventa un criterio importante per valutare la qualità di un ateneo e, di conseguenza, per ottenere anche i fondi, allora il passo verso il “diplomificio” è brevissimo. Ne va proprio della qualità dell’istruzione di base che, secondo noi, al momento è a livelli molto alti rispetto all’estero. Noi abbiamo studiato anche negli Stati Uniti e abbiamo constatato che, per quanto riguarda la preparazione di base, eravamo ad un livello superiore. I ricercatori italiani, nonostante tutto, sono bravi perché riescono a fare il proprio lavoro e a metterci ancora passione nonostante tutte le difficoltà; invece all’estero non solo hanno i mezzi, ma sanno anche investire il loro tempo in qualcosa che otterranno sicuramente, vengono comunque pagati molto di più anche quando sono precari rispetto a noi e, in generale, godono di maggiore considerazione. Per dare prospettive, dunque, bisogna dare più risorse all’università. È vero che ci sono molti sprechi, però vanno individuati con attenzione e, soprattutto, vanno ascoltate le persone che nell’università ci lavorano; si tratta di una realtà troppo complessa, dall’esterno non si riesce ad avere una percezione giusta. Noi ci sentiamo sottopagati, ma dobbiamo ammettere che c’è gente nell’università che per quello che fa viene pagata sin troppo. Forse come prima cosa bisognerebbe colpire quelle situazioni che sono sotto gli occhi di tutti: il docente che a ricevimento non c’è mai o che non fa le ore di didattica che dovrebbe, l’avvocato o il medico che svolge parallelamente all’incarico universitario la libera professione. Ma questa critica non dovrebbe nemmeno venire dall’esterno, bensì dalle persone che fanno il proprio lavoro che sono già all’interno dell’università. Evidentemente non c’è questa volontà. Noi che siamo in una situazione precaria possiamo solo esprimere il nostro dissenso, ma ci sarebbe bisogno di qualcuno che agisse efficacemente. Purtroppo piace mantenere questa condizione di subordinazione, di sudditanza psicologica; i docenti non dovrebbero esercitare alcun potere, ma se lo sono creati nel tempo e non vogliono perderlo, perciò è difficile che una riforma parta dall’interno dell’università perché proprio coloro che avrebbero il potere, i mezzi per cambiare le cose, non vogliono perdere questa situazione di privilegio che si sono creata col tempo. Dispiace, poi, vedere che quando si parla pubblicamente di università, la discussione venga affidata a persone che non conoscono affatto questo mondo, che non vi sono dentro, sia da una parte politica che dall’altra. Solo gli addetti ai lavori possono capire e far capire la situazione reale, perché è un mondo talmente complesso, che sulla carta funziona in un modo ma nella pratica in un altro, che se non ci stai dentro fai fatica a capirne i meccanismi.
Dopo più di un’ora di conversazione appassionata, lasciamo andare i ricercatori al proprio lavoro. Nel concludere il resoconto di questo colloquio, ci piace sottolineare come la menzione dello stipendio sia stata, nelle dichiarazioni degli intervistati, quasi marginale, frequenza inversamente proporzionale all’espressione “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” che segna ogni articolo di questo decreto.
Intervista a cura di Emanuela De Luca e Bijoy M. Trentin
sabato 29 maggio 2010
Il tirocinio nella formazione dei futuri insegnanti
Intervista a Eugenia Lodini
A cura di Bijoy M. Trentin e Emanuela De Luca
La formazione dei futuri insegnanti è tema molto attuale, poiché dovrebbe anche essere approvato presto un decreto che ridisegnerà i percorsi universitari che consentiranno l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado. A questo decreto, purtroppo, non si accompagna ancora oggi una legislazione (efficace) relativa al reclutamento: sarà necessario, invece, individuare al piú presto le strade da percorrere per poter contemplare le ‘esigenze’ sia degli abilitati con il nuovo sistema previsto sia dei cosiddetti precari storici, secondo modalità e criteri validi su tutto il territorio nazionale, pur nel rispetto delle peculiarità e delle necessità locali. Nel dibattito si è fatto riferimento largamente al ruolo e allo ‘spazio’ del tirocinio: cosí abbiamo rivolto alcune domande su questo argomento a Eugenia Lodini (http://www.unibo.it/docenti/eugenia.lodini), Professore ordinario di Pedagogia sperimentale presso l’Università di Bologna. [B.M.T.]
Il tirocinio è ritenuto fondamentale nel processo di formazione dei futuri insegnanti: quali sono le sue peculiarità pedagogico-didattiche?
Sono fortemente convinta dell’importanza del tirocinio; tra l’altro nella formazione iniziale degli insegnanti – almeno dei maestri – è sempre stato presente il riferimento al tirocinio, anche se prima che diventasse un’esperienza universitaria esso era una sorta di “cenerentola”. Dal momento in cui la formazione è passata all’università, è aumentato il senso e il valore del tirocinio. Nei modelli di formazione iniziale, sia per la scuola dell’infanzia e primaria, sia per la scuola secondaria, il tirocinio è sempre stato l’anello di congiunzione fra l’università e la scuola, e questo è il suo ruolo importante, perché esso si tratta di una forma di apprendimento dall’esperienza diversa dal tipico apprendimento che avviene nei laboratori e nei corsi universitari. Focalizzare l’attenzione sull’apprendimento dall’esperienza è importantissimo, come altrettanto importante è che l’istituzione formativa rifletta su che cosa va appreso attraverso il tirocinio, che cosa attraverso i corsi e che cosa attraverso le attività laboratori ali. Esistono degli studi su questo, proprio per vedere quali sono i contenuti, le conoscenze e le abilità che si possono veicolare bene con il tirocinio. Vi sono poi due modelli sostanzialmente che si contrappongono: il modello del tirocinio come luogo o come esperienza in cui vai ad applicare le conoscenze teoriche che hai appreso, cioè “tutto quello che dovevo imparare l’ho imparato all’università e adesso vado a scuola e lo applico nella pratica”; l’altro è un modello che qui a Bologna abbiamo chiamato di “integrazione problematica” tra la formazione teorica e la pratica: vado a scuola, “raccolgo” una serie di conoscenze e di abilità tipiche che è fondamentale apprendere dall’esperienza e poi le riporto nel mio percorso formativo e, insieme, ho acquisito delle conoscenze nel mio percorso formativo e vedo come sono realizzate nella pratica. Questo tipo di modello non è di applicazione di quello che ho appreso ma di interazione di quello che viene appreso nella situazione della scuola e di quello che viene appreso all’università. Il tirocinio può essere, inoltre, diretto e indiretto: il tirocinio diretto è svolto nella scuola ed assegna un ruolo molto importante alla riflessione sull’esperienza e alla documentazione; il tirocinio indiretto, invece, si svolge all’interno dell’università, ma ritengo che parlare della scuola nell’università sia utile prima dell’esperienza, come momento preparatorio, e dopo, come momento di riflessione, ma resta imprescindibile il fatto che lo studente debba fare esperienza all’interno della scuola.
Infatti il tirocinio ha un’altra importante funzione di tipo pedagogico-didattico: di orientamento allo studente, che, quando va a fare il tirocinio, capisce effettivamente come va agìta la professione e quindi si rende conto se è una professione che nella sua realizzazione pratica corrisponde alle sue aspettative, ai suoi desideri, e se preferisce orientarsi verso la scuola primaria o dell’infanzia. Adesso le nuove proposte fanno pensare ad un corso di laurea con uno sbocco unificato, cioè formerà un insegnante che può insegnare sia nella scuola dell’infanzia che nella scuola elementare; allora a maggior ragione sarà importante che il tirocinio si svolga in entrambi gli ordini di scuola in modo che lo studente possa capire qual è lo scenario per cui si sta preparando.
Quali sono le caratteristiche del tirocinio attivato presso l’Università di Bologna?
Caratteristica importante dell’esperienza di tirocinio è [A] che si svolge sempre durante la formazione, questo è molto importante; esistono anche altri modelli di tirocinio e c’è stata anche un’epoca in cui si pensava che la formazione dell’insegnante avvenisse con quell’anno successivo alla conclusione dei corsi (come succede per il corso di laurea in Psicologia: prima ti laurei e poi fai l’esperienza di tirocinio); invece qui il modello su cui noi pedagogisti abbiamo insistito è quello del tirocinio durante proprio per quello che dicevamo prima, cioè per la possibilità di modulare gli obiettivi del tirocinio in relazione agli obiettivi dei corsi e dei laboratori, e anche per permettere l’ interazione tra la cultura della scuola e la cultura dell’università; [B] il passaggio progressivo da una semplice fase di osservazione all’attività di coinvolgimento; [C] altro elemento fondamentale del tirocinio è la presenza del supervisore; questa è stata una delle innovazioni, sia nelle SSIS che nel corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria, quella di prevedere il distacco all’università di insegnanti e di dirigenti scolastici, che si occupano in particolare di gestire questa esperienza. Complessivamente, a mio avviso, è stata un’esperienza molto positiva pur con notevoli difficoltà, perché il maestro che viene distaccato all’università è abituato a lavorare con dei bambini e, trovandosi a lavorare con dei giovani adulti, deve evitare di avere un atteggiamento di maternage e cercare di sviluppare un atteggiamento critico. Nel contempo, è anche un elemento molto importante perché è una figura che conosce dall’interno l’esperienza scolastica. Direi che questo è stato uno degli aspetti estremamente positivi del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria come delle SSIS. [D] Altro aspetto importante: dal nostro punto di vista è sempre stato fondamentale apprendere dall’esperienza ma anche riflettere sulla propria esperienza di apprendimento. Quindi il tirocinio non è semplicemente una full immersion nella pratica, ma è un’attività in cui è fondamentale la riflessione sull’esperienza, che si può fare in vari modi; per esempio noi abbiamo molto insistito su strumenti specifici (il diario dell’esperienza, la documentazione dell’esperienza, la relazione sull’esperienza stessa) proprio come strumenti per fare riflettere e documentare quello che si è fatto. Siccome poi la documentazione è una delle pecche degli insegnanti, che non documentano abbastanza quello che fanno, cerchiamo anche di metterlo come obiettivo indiretto per abituare i futuri insegnanti a farne un elemento della loro professionalità. Inoltre, a Bologna abbiamo prodotto dei materiali scritti sull’esperienza del tirocinio, i supervisori hanno scritto dei libri sulla loro esperienza, sul sito della facoltà è presente tutta l’elencazione delle procedure del tirocinio, degli strumenti che sono utilizzati [http://www.scform.unibo.it/Scienze+della+Formazione/Didattica/Tirocini/sfp_tirocinio.htm].
Quali conformazioni strutturali ha avuto nel tempo l’organizzazione del tirocinio per la formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria?
Nelle SSIS – per quanto ne so io – è stato molto accentuato il ruolo di tirocinio attivo da parte dello studente che va e fa una sua parte di lezione o un piccolo segmento; invece in Scienze della Formazione Primaria abbiamo dato anche molta importanza alla fase dell’osservazione: essendo distribuito in quattro anni di corso, è un tirocinio che parte da una fase esclusivamente osservativa e arriva solo alla fine dei quattro anni a una fase in cui l’insegnante in formazione assume un ruolo attivo.
Sempre con lo stesso insegnante?
Assolutamente no; anzi, siccome il biennio è uguale per tutti, sia che poi uno nel secondo biennio scelga di fare Scuola dell’Infanzia sia che scelga Scuola Primaria, tendenzialmente nei primi due anni il tirocinio deve essere svolto in entrambi i due ordini di scuola, poi dopo nell’ordine che è stato scelto.
L’organizzazione attuale del tirocinio dovrebbe essere mantenuta oppure dovrebbe essere modificata? Come?
Migliorare si può sempre, però i punti centrali credo che vadano mantenuti (d’altra parte anche la bozza Israel va in questa direzione): tirocinio durante sicuramente, tirocinio nei vari ordini di scuola sicuramente, tirocinio con i supervisori altro elemento fondamentale; direi che questi aspetti vengono salvaguardati, perché personalmente ritengo che il tirocinio sia fondamentale nella formazione, ma il tirocinio senza la riflessione, senza la teoria è una pratica inutile perché è cieca, non è trasmissibile, non ha senso, il tirocinio deve essere l’occasione di fare quelle esperienze che sono topiche, che possono essere realizzate solo all’interno della pratica quotidiana. Per esempio, se io non mando uno studente ad assistere ad un collegio dei docenti, egli non capirà mai di che cosa si tratta leggendo la normativa, oppure non riuscirà a capire che cosa vogliono dire le relazioni tra pari, la presa delle decisioni; posso spiegarglielo, ma non è la stessa cosa. È una conoscenza situata, va appresa in questo modo. Dunque non enfatizziamo, ma la mia filosofia è: scegliamo che cosa è importante che si faccia nel tirocinio rispetto a che cosa è importante che si faccia nel laboratorio rispetto a che cosa è importante che si faccia in un corso, rispetto, infine, a che cosa è importante che si faccia nell’attività individuale dello studente.
A proposito di laboratori, in che cosa si differenziano questi dal tirocinio?
I laboratori sono presenti in vari corsi di laurea, (lo prevede anche la 270, anche nella SSIS) e sono una forma di tipo didattico caratterizzata da un numero limitato di studenti, attorno a una trentina, e hanno la funzione di passaggio dalla teoria alla pratica; vale a dire, sono delle situazioni in cui gli studenti si mettono alla prova nell’analisi, nella produzione di forme culturali o didattiche particolari; per esempio vi sono laboratori di area disciplinare, allora in questo caso sono di didattica della matematica piuttosto che di didattica di discipline linguistiche; poi vi sono i laboratori di tipo psico-socio-pedagogico, per esempio la metodologia del lavoro di gruppo, o la produzione di prove di valutazione o la letteratura per l’infanzia. Però non sono dei corsi di lezione, sono dei corsi in cui un conduttore con il suo gruppo a partire dall’analisi di una certa problematica fa fare un’esperienza diretta agli allievi. Il nucleo centrale del discorso è: il laboratorio è un corso in piccolo? Se la risposta è così è sbagliata. Il laboratorio è una diversa forma di mediatore didattico, quindi è qualcosa che richiede all’allievo di mettersi in prima persona a sperimentarsi in attività che può utilizzare anche nella sua esperienza di insegnante e, prima di arrivare alla sua esperienza di insegnante, nella sua esperienza di tirocinante. È una sorta di ponte: dal corso, che è teorico, al laboratorio, in cui la teoria si coniuga con l’esperienza didattica di ricostruire dei percorsi, al tirocinio, in cui questo può esser messo in pratica.
La nuova bozza di regolamento per la formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria prevede (salvo prossime modificazioni) l’accesso, la frequenza e il superamento di un anno di Tirocinio Formativo Attivo. Leggendo la bozza si ha l’impressione che poco sia cambiato rispetto al funzionamento delle vecchie SSIS, cioè che vi sia solo un ridimensionamento temporale (probabilmente dovuto alla tendenza a “razionalizzare”): cosa ne pensa? Come ritiene che debba essere organizzata la formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria?
TFA: è un terreno un po’ più delicato, perché, l’impressione di una semplice riduzione temporale, l’ho avuta anch’io; d’altra parte era stata aumentata di un anno la formazione precedente, quindi con il 3+2 gli anni sono diventati cinque, mentre prima erano quattro. Però il problema mi sembra un altro: nella proposta che è venuta fuori si ha un’impressione di non omogeneità; c’è, sì, un’accentuazione del discorso del tirocinio, però i corsi di scienze dell’educazione e quelli delle materie legate all’abilitazione sono molto separati, mentre nella costruzione del progetto di tirocinio si dovrebbero fondere. Anche prima nella SSIS, le attività di tirocinio erano più legate esclusivamente all’ambito disciplinare: i corsi di scienze dell’educazione erano fatti al primo anno e rimanevano staccati. Questo è un elemento che secondo me non va bene. Da questo punto di vista bisognerebbe istituire dei laboratori da cui scaturiscono i progetti di tirocinio in modo che si fondano le competenze di scienze dell’educazione e quelle delle singole discipline. Esempio: un conto è se io faccio lezione di docimologia e sulla valutazione, un conto è se poi devo andare a ragionare su “come fai la valutazione di questo progetto?”, la valutazione di questo progetto ha a che fare con i tipi di obiettivo, di attività per cui devi mettere in sinergia questo elemento. Poi c’è un altro fattore che è di tipo istituzionale ma che avrà la sua importanza: dove saranno situati questi TFA? Presso una Facoltà come la nostra di Scienze della Formazione o presso le singole facoltà? La SSIS aveva avuto il grande pregio culturale di dire “la formazione degli insegnanti è trasversale rispetto alle facoltà”.
Però ora si stanno ideando lauree magistrali all’interno delle singole facoltà…
Le magistrali sì, ma le magistrali specifiche in cui sono previsti insegnamenti di scienze dell’educazione non ancora. Vi è comunque una diminuzione dello spazio per le scienze dell’educazione tenendo conto sia delle magistrali che del TFA. Bisognerà fare uno sforzo per identificare dei nuovi modelli per questo tirocinio formativo attivo, che peraltro poteva già essere attivato quest’anno e non è stato attivato e che non verrà secondo me attivato nemmeno il prossimo anno perché il risparmio nella scuola si attua non solo con i tagli al personale, ma anche con il “blocco della produzione” di nuovi insegnanti.
C’è la possibilità di formare i formatori, in particolar modo quelli dell’area disciplinare, che naturalmente non provengono da percorsi pedagogico-didattici?
Quello della formazione dei docenti universitari, di quelli che fanno didattica universitaria è un tema abbastanza nuovo in Italia; però già qui a Bologna ci sono state delle ricerche in questa direzione, ad esempio da parte del Centro Interdipartimentale della Ricerca Educativa, che è uno dei punti cardine, che è anche l’istituzione da cui partì il discorso della formazione degli insegnanti e la SSIS. Sicuramente c’è un problema da questo punto di vista, però man mano si è formata una cultura per esempio attorno ai laboratori (tra poco uscirà un testo sui laboratori fatto dai nostri supervisori nella formazione dei corsi abilitanti speciali, formazione comunque iniziale degli insegnanti), come luogo-spazio di creazione di una cultura diversa, di una cultura del sapere e del saper fare. D’altra parte anche nel passato vi era l’idea del laboratorio (penso ai CEMEA per esempio, al Movimento di Cooperazione Educativa) finalizzato a creare delle esperienze educative. Se prevediamo all’interno del TFA una maggiore integrazione fra le scienze dell’educazione e le discipline nel progettare certi interventi, certe attività, penso che sia un vantaggio per tutti: le scienze dell’educazione hanno bisogno delle discipline per poter vedere come si applicano i propri principi nel contesto reale, ma l’applicazione richiede dei principi generali. Molto dipenderà dall’organizzazione, anche di spazi per fare sperimentazione di forme pedagogico-didattiche diverse, anche perché ci sono ambiti disciplinari che sono più avanti nella didattica disciplinare, altri più indietro.
Maggio 2010
A cura di Bijoy M. Trentin e Emanuela De Luca
La formazione dei futuri insegnanti è tema molto attuale, poiché dovrebbe anche essere approvato presto un decreto che ridisegnerà i percorsi universitari che consentiranno l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado. A questo decreto, purtroppo, non si accompagna ancora oggi una legislazione (efficace) relativa al reclutamento: sarà necessario, invece, individuare al piú presto le strade da percorrere per poter contemplare le ‘esigenze’ sia degli abilitati con il nuovo sistema previsto sia dei cosiddetti precari storici, secondo modalità e criteri validi su tutto il territorio nazionale, pur nel rispetto delle peculiarità e delle necessità locali. Nel dibattito si è fatto riferimento largamente al ruolo e allo ‘spazio’ del tirocinio: cosí abbiamo rivolto alcune domande su questo argomento a Eugenia Lodini (http://www.unibo.it/docenti/eugenia.lodini), Professore ordinario di Pedagogia sperimentale presso l’Università di Bologna. [B.M.T.]
Il tirocinio è ritenuto fondamentale nel processo di formazione dei futuri insegnanti: quali sono le sue peculiarità pedagogico-didattiche?
Sono fortemente convinta dell’importanza del tirocinio; tra l’altro nella formazione iniziale degli insegnanti – almeno dei maestri – è sempre stato presente il riferimento al tirocinio, anche se prima che diventasse un’esperienza universitaria esso era una sorta di “cenerentola”. Dal momento in cui la formazione è passata all’università, è aumentato il senso e il valore del tirocinio. Nei modelli di formazione iniziale, sia per la scuola dell’infanzia e primaria, sia per la scuola secondaria, il tirocinio è sempre stato l’anello di congiunzione fra l’università e la scuola, e questo è il suo ruolo importante, perché esso si tratta di una forma di apprendimento dall’esperienza diversa dal tipico apprendimento che avviene nei laboratori e nei corsi universitari. Focalizzare l’attenzione sull’apprendimento dall’esperienza è importantissimo, come altrettanto importante è che l’istituzione formativa rifletta su che cosa va appreso attraverso il tirocinio, che cosa attraverso i corsi e che cosa attraverso le attività laboratori ali. Esistono degli studi su questo, proprio per vedere quali sono i contenuti, le conoscenze e le abilità che si possono veicolare bene con il tirocinio. Vi sono poi due modelli sostanzialmente che si contrappongono: il modello del tirocinio come luogo o come esperienza in cui vai ad applicare le conoscenze teoriche che hai appreso, cioè “tutto quello che dovevo imparare l’ho imparato all’università e adesso vado a scuola e lo applico nella pratica”; l’altro è un modello che qui a Bologna abbiamo chiamato di “integrazione problematica” tra la formazione teorica e la pratica: vado a scuola, “raccolgo” una serie di conoscenze e di abilità tipiche che è fondamentale apprendere dall’esperienza e poi le riporto nel mio percorso formativo e, insieme, ho acquisito delle conoscenze nel mio percorso formativo e vedo come sono realizzate nella pratica. Questo tipo di modello non è di applicazione di quello che ho appreso ma di interazione di quello che viene appreso nella situazione della scuola e di quello che viene appreso all’università. Il tirocinio può essere, inoltre, diretto e indiretto: il tirocinio diretto è svolto nella scuola ed assegna un ruolo molto importante alla riflessione sull’esperienza e alla documentazione; il tirocinio indiretto, invece, si svolge all’interno dell’università, ma ritengo che parlare della scuola nell’università sia utile prima dell’esperienza, come momento preparatorio, e dopo, come momento di riflessione, ma resta imprescindibile il fatto che lo studente debba fare esperienza all’interno della scuola.
Infatti il tirocinio ha un’altra importante funzione di tipo pedagogico-didattico: di orientamento allo studente, che, quando va a fare il tirocinio, capisce effettivamente come va agìta la professione e quindi si rende conto se è una professione che nella sua realizzazione pratica corrisponde alle sue aspettative, ai suoi desideri, e se preferisce orientarsi verso la scuola primaria o dell’infanzia. Adesso le nuove proposte fanno pensare ad un corso di laurea con uno sbocco unificato, cioè formerà un insegnante che può insegnare sia nella scuola dell’infanzia che nella scuola elementare; allora a maggior ragione sarà importante che il tirocinio si svolga in entrambi gli ordini di scuola in modo che lo studente possa capire qual è lo scenario per cui si sta preparando.
Quali sono le caratteristiche del tirocinio attivato presso l’Università di Bologna?
Caratteristica importante dell’esperienza di tirocinio è [A] che si svolge sempre durante la formazione, questo è molto importante; esistono anche altri modelli di tirocinio e c’è stata anche un’epoca in cui si pensava che la formazione dell’insegnante avvenisse con quell’anno successivo alla conclusione dei corsi (come succede per il corso di laurea in Psicologia: prima ti laurei e poi fai l’esperienza di tirocinio); invece qui il modello su cui noi pedagogisti abbiamo insistito è quello del tirocinio durante proprio per quello che dicevamo prima, cioè per la possibilità di modulare gli obiettivi del tirocinio in relazione agli obiettivi dei corsi e dei laboratori, e anche per permettere l’ interazione tra la cultura della scuola e la cultura dell’università; [B] il passaggio progressivo da una semplice fase di osservazione all’attività di coinvolgimento; [C] altro elemento fondamentale del tirocinio è la presenza del supervisore; questa è stata una delle innovazioni, sia nelle SSIS che nel corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria, quella di prevedere il distacco all’università di insegnanti e di dirigenti scolastici, che si occupano in particolare di gestire questa esperienza. Complessivamente, a mio avviso, è stata un’esperienza molto positiva pur con notevoli difficoltà, perché il maestro che viene distaccato all’università è abituato a lavorare con dei bambini e, trovandosi a lavorare con dei giovani adulti, deve evitare di avere un atteggiamento di maternage e cercare di sviluppare un atteggiamento critico. Nel contempo, è anche un elemento molto importante perché è una figura che conosce dall’interno l’esperienza scolastica. Direi che questo è stato uno degli aspetti estremamente positivi del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria come delle SSIS. [D] Altro aspetto importante: dal nostro punto di vista è sempre stato fondamentale apprendere dall’esperienza ma anche riflettere sulla propria esperienza di apprendimento. Quindi il tirocinio non è semplicemente una full immersion nella pratica, ma è un’attività in cui è fondamentale la riflessione sull’esperienza, che si può fare in vari modi; per esempio noi abbiamo molto insistito su strumenti specifici (il diario dell’esperienza, la documentazione dell’esperienza, la relazione sull’esperienza stessa) proprio come strumenti per fare riflettere e documentare quello che si è fatto. Siccome poi la documentazione è una delle pecche degli insegnanti, che non documentano abbastanza quello che fanno, cerchiamo anche di metterlo come obiettivo indiretto per abituare i futuri insegnanti a farne un elemento della loro professionalità. Inoltre, a Bologna abbiamo prodotto dei materiali scritti sull’esperienza del tirocinio, i supervisori hanno scritto dei libri sulla loro esperienza, sul sito della facoltà è presente tutta l’elencazione delle procedure del tirocinio, degli strumenti che sono utilizzati [http://www.scform.unibo.it/Scienze+della+Formazione/Didattica/Tirocini/sfp_tirocinio.htm].
Quali conformazioni strutturali ha avuto nel tempo l’organizzazione del tirocinio per la formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria?
Nelle SSIS – per quanto ne so io – è stato molto accentuato il ruolo di tirocinio attivo da parte dello studente che va e fa una sua parte di lezione o un piccolo segmento; invece in Scienze della Formazione Primaria abbiamo dato anche molta importanza alla fase dell’osservazione: essendo distribuito in quattro anni di corso, è un tirocinio che parte da una fase esclusivamente osservativa e arriva solo alla fine dei quattro anni a una fase in cui l’insegnante in formazione assume un ruolo attivo.
Sempre con lo stesso insegnante?
Assolutamente no; anzi, siccome il biennio è uguale per tutti, sia che poi uno nel secondo biennio scelga di fare Scuola dell’Infanzia sia che scelga Scuola Primaria, tendenzialmente nei primi due anni il tirocinio deve essere svolto in entrambi i due ordini di scuola, poi dopo nell’ordine che è stato scelto.
L’organizzazione attuale del tirocinio dovrebbe essere mantenuta oppure dovrebbe essere modificata? Come?
Migliorare si può sempre, però i punti centrali credo che vadano mantenuti (d’altra parte anche la bozza Israel va in questa direzione): tirocinio durante sicuramente, tirocinio nei vari ordini di scuola sicuramente, tirocinio con i supervisori altro elemento fondamentale; direi che questi aspetti vengono salvaguardati, perché personalmente ritengo che il tirocinio sia fondamentale nella formazione, ma il tirocinio senza la riflessione, senza la teoria è una pratica inutile perché è cieca, non è trasmissibile, non ha senso, il tirocinio deve essere l’occasione di fare quelle esperienze che sono topiche, che possono essere realizzate solo all’interno della pratica quotidiana. Per esempio, se io non mando uno studente ad assistere ad un collegio dei docenti, egli non capirà mai di che cosa si tratta leggendo la normativa, oppure non riuscirà a capire che cosa vogliono dire le relazioni tra pari, la presa delle decisioni; posso spiegarglielo, ma non è la stessa cosa. È una conoscenza situata, va appresa in questo modo. Dunque non enfatizziamo, ma la mia filosofia è: scegliamo che cosa è importante che si faccia nel tirocinio rispetto a che cosa è importante che si faccia nel laboratorio rispetto a che cosa è importante che si faccia in un corso, rispetto, infine, a che cosa è importante che si faccia nell’attività individuale dello studente.
A proposito di laboratori, in che cosa si differenziano questi dal tirocinio?
I laboratori sono presenti in vari corsi di laurea, (lo prevede anche la 270, anche nella SSIS) e sono una forma di tipo didattico caratterizzata da un numero limitato di studenti, attorno a una trentina, e hanno la funzione di passaggio dalla teoria alla pratica; vale a dire, sono delle situazioni in cui gli studenti si mettono alla prova nell’analisi, nella produzione di forme culturali o didattiche particolari; per esempio vi sono laboratori di area disciplinare, allora in questo caso sono di didattica della matematica piuttosto che di didattica di discipline linguistiche; poi vi sono i laboratori di tipo psico-socio-pedagogico, per esempio la metodologia del lavoro di gruppo, o la produzione di prove di valutazione o la letteratura per l’infanzia. Però non sono dei corsi di lezione, sono dei corsi in cui un conduttore con il suo gruppo a partire dall’analisi di una certa problematica fa fare un’esperienza diretta agli allievi. Il nucleo centrale del discorso è: il laboratorio è un corso in piccolo? Se la risposta è così è sbagliata. Il laboratorio è una diversa forma di mediatore didattico, quindi è qualcosa che richiede all’allievo di mettersi in prima persona a sperimentarsi in attività che può utilizzare anche nella sua esperienza di insegnante e, prima di arrivare alla sua esperienza di insegnante, nella sua esperienza di tirocinante. È una sorta di ponte: dal corso, che è teorico, al laboratorio, in cui la teoria si coniuga con l’esperienza didattica di ricostruire dei percorsi, al tirocinio, in cui questo può esser messo in pratica.
La nuova bozza di regolamento per la formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria prevede (salvo prossime modificazioni) l’accesso, la frequenza e il superamento di un anno di Tirocinio Formativo Attivo. Leggendo la bozza si ha l’impressione che poco sia cambiato rispetto al funzionamento delle vecchie SSIS, cioè che vi sia solo un ridimensionamento temporale (probabilmente dovuto alla tendenza a “razionalizzare”): cosa ne pensa? Come ritiene che debba essere organizzata la formazione iniziale degli insegnanti della scuola secondaria?
TFA: è un terreno un po’ più delicato, perché, l’impressione di una semplice riduzione temporale, l’ho avuta anch’io; d’altra parte era stata aumentata di un anno la formazione precedente, quindi con il 3+2 gli anni sono diventati cinque, mentre prima erano quattro. Però il problema mi sembra un altro: nella proposta che è venuta fuori si ha un’impressione di non omogeneità; c’è, sì, un’accentuazione del discorso del tirocinio, però i corsi di scienze dell’educazione e quelli delle materie legate all’abilitazione sono molto separati, mentre nella costruzione del progetto di tirocinio si dovrebbero fondere. Anche prima nella SSIS, le attività di tirocinio erano più legate esclusivamente all’ambito disciplinare: i corsi di scienze dell’educazione erano fatti al primo anno e rimanevano staccati. Questo è un elemento che secondo me non va bene. Da questo punto di vista bisognerebbe istituire dei laboratori da cui scaturiscono i progetti di tirocinio in modo che si fondano le competenze di scienze dell’educazione e quelle delle singole discipline. Esempio: un conto è se io faccio lezione di docimologia e sulla valutazione, un conto è se poi devo andare a ragionare su “come fai la valutazione di questo progetto?”, la valutazione di questo progetto ha a che fare con i tipi di obiettivo, di attività per cui devi mettere in sinergia questo elemento. Poi c’è un altro fattore che è di tipo istituzionale ma che avrà la sua importanza: dove saranno situati questi TFA? Presso una Facoltà come la nostra di Scienze della Formazione o presso le singole facoltà? La SSIS aveva avuto il grande pregio culturale di dire “la formazione degli insegnanti è trasversale rispetto alle facoltà”.
Però ora si stanno ideando lauree magistrali all’interno delle singole facoltà…
Le magistrali sì, ma le magistrali specifiche in cui sono previsti insegnamenti di scienze dell’educazione non ancora. Vi è comunque una diminuzione dello spazio per le scienze dell’educazione tenendo conto sia delle magistrali che del TFA. Bisognerà fare uno sforzo per identificare dei nuovi modelli per questo tirocinio formativo attivo, che peraltro poteva già essere attivato quest’anno e non è stato attivato e che non verrà secondo me attivato nemmeno il prossimo anno perché il risparmio nella scuola si attua non solo con i tagli al personale, ma anche con il “blocco della produzione” di nuovi insegnanti.
C’è la possibilità di formare i formatori, in particolar modo quelli dell’area disciplinare, che naturalmente non provengono da percorsi pedagogico-didattici?
Quello della formazione dei docenti universitari, di quelli che fanno didattica universitaria è un tema abbastanza nuovo in Italia; però già qui a Bologna ci sono state delle ricerche in questa direzione, ad esempio da parte del Centro Interdipartimentale della Ricerca Educativa, che è uno dei punti cardine, che è anche l’istituzione da cui partì il discorso della formazione degli insegnanti e la SSIS. Sicuramente c’è un problema da questo punto di vista, però man mano si è formata una cultura per esempio attorno ai laboratori (tra poco uscirà un testo sui laboratori fatto dai nostri supervisori nella formazione dei corsi abilitanti speciali, formazione comunque iniziale degli insegnanti), come luogo-spazio di creazione di una cultura diversa, di una cultura del sapere e del saper fare. D’altra parte anche nel passato vi era l’idea del laboratorio (penso ai CEMEA per esempio, al Movimento di Cooperazione Educativa) finalizzato a creare delle esperienze educative. Se prevediamo all’interno del TFA una maggiore integrazione fra le scienze dell’educazione e le discipline nel progettare certi interventi, certe attività, penso che sia un vantaggio per tutti: le scienze dell’educazione hanno bisogno delle discipline per poter vedere come si applicano i propri principi nel contesto reale, ma l’applicazione richiede dei principi generali. Molto dipenderà dall’organizzazione, anche di spazi per fare sperimentazione di forme pedagogico-didattiche diverse, anche perché ci sono ambiti disciplinari che sono più avanti nella didattica disciplinare, altri più indietro.
Maggio 2010
domenica 21 marzo 2010
Cronache e dibattiti sulla realtà dell'Università in Italia e sulle prospettive del suo cambiamento
A cura di Bijoy M.Trentin.
sabato 20 marzo 2010
Impegno e partecipazione.
Per un dibattito rinnovato sull’università.
In un quadro socio-culturale ideale, l’università, come la scuola, dovrebbe essere sempre un bene comune, una comunità che crea e fonda spazi di condivisione dei saperi, di partecipazione attiva, di coesione democratica, e propone e promuove il pluralismo della dinamicità e dell’attività del pensiero critico, innovativo, multiforme. La tensione alla ricerca e l’aspirazione alla scoperta si dovrebbero coniugare sempre in un orizzonte che non preveda prospettive individualistiche e sfrenatamente competitive.
I singoli saperi, nonostante la loro complessità, specificità e specializzazione, dovrebbero essere sempre in grado di fondersi in universi di senso contrari alla frammentazione, alla compartimentazione, alla settorializzazione. I significati, i modi e le direzioni si dovrebbero intersecare in maniera solidale e sistemica: diversamente, il disorientamento si potrebbe propagare in forme di smarrimento caotico, provocando inevitabili naufragi. Questa è la rappresentazione di un’università «senza condizione» (Jacques Derrida), di un modello teorico potente, che, purtroppo, a volte, rischia di sbiadirsi, di dissolversi di fronte a uno sguardo miope.
Oggi l’università, come la scuola, viene attaccata da più parti, è in pericolo perché c’è chi tenta di delegittimarla, con l’intenzione di ridurla a sede finale di una formazione gerarchizzata e solo per pochi. Ogni sforzo di riforma che muova dalla convinzione che l’accademia sia popolata da «fannulloni» e da «cani e porci» non può che scontrarsi con la forza della passione e della serietà delle persone che all’università lavorano e studiano responsabilmente, o almeno questo è il nostro augurio. E la tanto invocata e sbandierata “meritocrazia”, che sembra essere una panacea salvifica, se fraintesa, porta ad allontanarsi dai problemi reali dell’università, da come farla crescere in qualità e quantità, insieme. Lo stordimento meritocratico può giungere, a volte, persino all’esaltazione di impulsi aristocratici, solo elitari e esclusivi. Ancora: i ricercatori e i professori, le strutture e il sistema accademico nel suo complesso si dovranno confrontare, sempre piú frequentemente, con procedure valutative, ma, parafrasando Giovenale, chi valuterà gli stessi valutatori?
Devono essere fatti ancora molti passi prima di giungere a una matura cultura della valutazione, a cui devono essere sottoposti anche tutti quei dispositivi che garantiscono la libertà ‘gestionale’ (individuale e istituzionale) a vari livelli nella ricerca e nella didattica che vanno sotto il nome di “autonomia”, da declinare sempre secondo forme non arbitrarie ma equilibrate, regolate e non capricciose. La gestione delle risorse non dovrebbe assecondare i processi di razionalizzazione che impoveriscono anche i processi di democratizzazione: sono auspicabili, dunque, per gli studenti, tasse non elevate e borse di studio consistenti, e, per il personale, un flusso costante di reclutamento e di aggiornamento. Solo le riforme che avranno origine dal rispetto reciproco e dal dibattito allargato si potranno affermare con solida fondatezza.
Le politiche che propongono di continuo solo slogan vuoti, meramente propagandistici, in cui imperversano la distorsione e l’adulterazione, possono risultare non solo decisamente funeste ma anche incapaci di stabilire la propria legislazione in modo coerente: già oggi, appena all’inizio della “riforma Gelmini”, i brandelli della comunicazione si ricompongono in rompicapi capaci di destabilizzare non solo l’opinione che i cittadini hanno dell’università ma anche lo stesso organismo accademico. In tale contesto, un linguaggio deteriorato e (non raramente) persino sguaiato non è in grado di raggiungere il nucleo della sostanza dei problemi reali esistenti. Invece, il recupero della dimensione del confronto e del dialogo autentici e sereni, eleganti e leali possono persino restituire la speranza di riuscire a agire in una società che sappia non solo rispettare il passato e il presente ma anche proiettarsi nel futuro che racchiude l’armoniosa realizzazione degli ideali e dei sogni dei singoli, delle comunità, dei popoli. E «Riforma della scuola», con l’energia dell’impegno e della volontà di partecipazione, intende contribuire, insieme con molte altre voci, a immaginare e progettare questo futuro, incentivando dinamiche dialettiche nuove e innovative.
Bijoy M. Trentin
In un quadro socio-culturale ideale, l’università, come la scuola, dovrebbe essere sempre un bene comune, una comunità che crea e fonda spazi di condivisione dei saperi, di partecipazione attiva, di coesione democratica, e propone e promuove il pluralismo della dinamicità e dell’attività del pensiero critico, innovativo, multiforme. La tensione alla ricerca e l’aspirazione alla scoperta si dovrebbero coniugare sempre in un orizzonte che non preveda prospettive individualistiche e sfrenatamente competitive.
I singoli saperi, nonostante la loro complessità, specificità e specializzazione, dovrebbero essere sempre in grado di fondersi in universi di senso contrari alla frammentazione, alla compartimentazione, alla settorializzazione. I significati, i modi e le direzioni si dovrebbero intersecare in maniera solidale e sistemica: diversamente, il disorientamento si potrebbe propagare in forme di smarrimento caotico, provocando inevitabili naufragi. Questa è la rappresentazione di un’università «senza condizione» (Jacques Derrida), di un modello teorico potente, che, purtroppo, a volte, rischia di sbiadirsi, di dissolversi di fronte a uno sguardo miope.
Oggi l’università, come la scuola, viene attaccata da più parti, è in pericolo perché c’è chi tenta di delegittimarla, con l’intenzione di ridurla a sede finale di una formazione gerarchizzata e solo per pochi. Ogni sforzo di riforma che muova dalla convinzione che l’accademia sia popolata da «fannulloni» e da «cani e porci» non può che scontrarsi con la forza della passione e della serietà delle persone che all’università lavorano e studiano responsabilmente, o almeno questo è il nostro augurio. E la tanto invocata e sbandierata “meritocrazia”, che sembra essere una panacea salvifica, se fraintesa, porta ad allontanarsi dai problemi reali dell’università, da come farla crescere in qualità e quantità, insieme. Lo stordimento meritocratico può giungere, a volte, persino all’esaltazione di impulsi aristocratici, solo elitari e esclusivi. Ancora: i ricercatori e i professori, le strutture e il sistema accademico nel suo complesso si dovranno confrontare, sempre piú frequentemente, con procedure valutative, ma, parafrasando Giovenale, chi valuterà gli stessi valutatori?
Devono essere fatti ancora molti passi prima di giungere a una matura cultura della valutazione, a cui devono essere sottoposti anche tutti quei dispositivi che garantiscono la libertà ‘gestionale’ (individuale e istituzionale) a vari livelli nella ricerca e nella didattica che vanno sotto il nome di “autonomia”, da declinare sempre secondo forme non arbitrarie ma equilibrate, regolate e non capricciose. La gestione delle risorse non dovrebbe assecondare i processi di razionalizzazione che impoveriscono anche i processi di democratizzazione: sono auspicabili, dunque, per gli studenti, tasse non elevate e borse di studio consistenti, e, per il personale, un flusso costante di reclutamento e di aggiornamento. Solo le riforme che avranno origine dal rispetto reciproco e dal dibattito allargato si potranno affermare con solida fondatezza.
Le politiche che propongono di continuo solo slogan vuoti, meramente propagandistici, in cui imperversano la distorsione e l’adulterazione, possono risultare non solo decisamente funeste ma anche incapaci di stabilire la propria legislazione in modo coerente: già oggi, appena all’inizio della “riforma Gelmini”, i brandelli della comunicazione si ricompongono in rompicapi capaci di destabilizzare non solo l’opinione che i cittadini hanno dell’università ma anche lo stesso organismo accademico. In tale contesto, un linguaggio deteriorato e (non raramente) persino sguaiato non è in grado di raggiungere il nucleo della sostanza dei problemi reali esistenti. Invece, il recupero della dimensione del confronto e del dialogo autentici e sereni, eleganti e leali possono persino restituire la speranza di riuscire a agire in una società che sappia non solo rispettare il passato e il presente ma anche proiettarsi nel futuro che racchiude l’armoniosa realizzazione degli ideali e dei sogni dei singoli, delle comunità, dei popoli. E «Riforma della scuola», con l’energia dell’impegno e della volontà di partecipazione, intende contribuire, insieme con molte altre voci, a immaginare e progettare questo futuro, incentivando dinamiche dialettiche nuove e innovative.
Bijoy M. Trentin
Iscriviti a:
Post (Atom)